mercoledì 26 novembre 2014

"Alberi e Dintorni: Viaggio nel mondo degli Alberi tra Mito, Religione e Scienza"

Di seguito è riportato il testo originale della Presentazione tenuta il 22 novembre 2014 in Piazza XX settembre a Bologna, in occasione della Festa degli Alberi.

Stamani siamo stati invitati ad abbracciare un albero in questa piazza, come segno di amore e di rispetto per la natura.  Questo gesto mi ha ricordato un avvenimento tragico, rimasto nella storia come esempio di amore estremo dell'uomo per gli alberi, avvenuto nel 1730 nelle campagne vicino a  Jodhpur, in Rajasthan, India, dove 363 persone della comunità Bishnois, guidate da una donna, Amrita Devi, furono sterminate mentre abbracciavano alcuni alberi di Khairi (Prosopis cineraria), nel tentativo di opporsi al loro taglio, ordinato dal maharaj locale per costruire il suo nuovo palazzo. L’usanza di abbracciare gli alberi è probabilmente molto antica, ma trae da questo episodio una grande valenza simbolica, che ha portato questo gesto ad essere adottato da movimenti ecologisti di tutto il mondo.
Indubbiamente stiamo vivendo in un'età nera per quanto riguarda il nostro rapporto con la natura. L’avidità, l’ignoranza e la noncuranza dell’uomo stanno distruggendo delicati equilibri che hanno retto il nostro pianeta per milioni di anni. Per restare nel mondo degli alberi, ogni anno sulla Terra viene distrutta in maniera irreparabile una superficie di foresta di oltre 50.000 Km², più ampia della Toscana e dell’Emilia Romagna messe insieme.

Molti di noi vivono oramai distanti dalla natura e dai suoi ritmi naturali. Degli alberi e delle piante non conosciamo più i nomi e gli impieghi tradizionali;  abbiamo pure dimenticato le leggende ed i miti di cui sono stati  protagonisti, ed i profondi significati spirituali attribuiti loro per migliaia di anni presso  tutte le culture della Terra. Eppure sono le piante che hanno reso e rendono possibile la vita sul nostro pianeta, ed esse sono state fedeli compagne dell’uomo fino dalla sua apparizione sulla terra, regalando generosamente una incredibile varietà di prodotti, consolandoci ed emozionandoci con la loro bellezza.

Quello che propongo stamattina è quindi un breve viaggio nel mondo dimenticato degli Alberi, tanto per ricordarci alcune delle tante cose che li riguardano.

sabato 15 novembre 2014

Festa degli Alberi 2014 a Bologna



Anche quest'anno il Comune di Bologna, insieme a numerosi altri partners, organizza la Festa degli Alberi. Nata negli Stati Uniti nel 1872, la Festa degli Alberi è celebrata in Italia il 21 novembre.
La manifestazione si svolgerà a Bologna dal 20 novembre all' 8 dicembre 2014, con numerose iniziative nel centro storico, in periferia ed in collina, rivolte a grandi e bambini. Il Programma comprende mostre, passeggiate, spettacoli, laboratori, letture e molto altro.
Per chi volesse scaricare il Programma completo della Festa in formato PDF (5 MB circa), lo può fare al link sottostante (che rimanda alla mia casella di Dropbox):


Sabato 22 dicembre, alle ore 12 in Piazza XX settembre, vicino alla Stazione centrale di Bologna, io me medesimo terrò una conversazione dal titolo: "Alberi e dintorni: viaggio nel mondo degli alberi tra mito, religione e scienza". Nello stesso evento, organizzato da Legambiente Emilia Romagna, e con inizio alle ore 10, tempo permettendo (la veggo dura, con questo clima!) sarà messo a dimora un giovane alberello. 

Di seguito, il volantino relativo all'evento del 22 novembre.



 

martedì 2 settembre 2014

Sogno di Kheerganga


Kheerganga. Parvati Valley, Himachal Pradesh





Un tempo per raggiungere Kheerganga da Manikaran, laddove finiva la strada per le macchine, occorrevano due giorni abbondanti di cammino. Oggi la costruzione di una delle tante dighe che stanno devastando l’Himalaya ha portato la strada assai più avanti, e si arriva in sole cinque ore. La valle del Parvati diventa sempre più stupenda mano a mano che si risale. La presenza dell’uomo lascia quasi d’improvviso il posto a quella divina. Montagne dai fianchi infiniti, l’azzurro del cielo, il fiume che sbuffando e ruggendo rimbalza sugli spaventosi macigni del fondo, irretito dallo scorrere tra pareti sempre più strette. E poi la foresta, che ricopre il fianco sinistro della valle. Viva, densa, misteriosa, grande, come grande è quassù ogni manifestazione della Natura. Lasciati gli eleganti cedri più in basso, il bosco si compone di enormi abeti e picee, che puntano diritti verso il cielo le loro chiome raccolte, con i tronchi segnati dalle cicatrici del tempo, saldamente aggrappati ad una terra che sfugge ripida sotto i piedi. Nei pochi tratti meno declivi, noci mai visti riempiono con rami contorti e potenti lo spazio aereo, e dilatano le basi dei loro fusti verso ampiezze spropositate e disegni accattivanti.

Kheerganga è un’ ampia radura erbosa che si apre improvvisa nel bosco, su un tratto comunque in discreta pendenza. E’ luogo sommamente sacro: si racconta che il figlio del dio Shiva, Kartikeya, trascorse qui 14.000 anni immerso in una profonda meditazione, ottenendo che dalla terra sgorgasse una sorgente di dolcissimo kheer (dolce liquido indiano, a base di riso, latte, spezie e zucchero), la quale dopo varie vicissitudini si trasformò nell’attuale sorgente di acqua calda, accreditata di incredibili proprietà curative. La sorgente alimenta una grande vasca situata in cima alla radura, che si apre come una terrazza sulla valle. E’ una sensazione bellissima immergersi dopo una giornata di sudore ed osservare tranquillo e beato il mondo dintorno, che se ne sta in tranquilla immobilità.

Tornando dall’immersione verso la mia guest house post industriale, fatta di compensato e plastica, ho visto sulla destra un albero che sovrastava tutti gli altri suoi fratelli. Mi sono quindi avviato, trovandomi di fronte un vecchissimo noce, il più grande che avessi mai visto. Ma non ho fatto in tempo a bearmi della visione, che una sottile colonna di fumo, proveniente dall’interno del bosco, ha attirato la mia attenzione. Assai incuriosito, ho proseguito in quella direzione. Era un profumato fuocherello di cedro, acceso su una piazzola, accanto ad una tendina, e davanti ad un vegliardo abete, sicuramente per maestosità il re di tutti quelli incontrati nella giornata. Tra le sue gigantesche radici si apriva una cavità, grande abbastanza da permettere ad un uomo di sedervi dentro. Quando mi ha visto, si è alzato e si è avvicinato al fuoco. Era vestito di una lunga tunica arancione, giovane, con un faccione aperto e sorridente, rinchiuso tra una lunga barba nerissima. Il suo viso aveva il colore scuro delle genti del sud. Lo saluto, e lui mi risponde a gesti. Gli chiedo se è per caso un muni (devoti che fanno il voto del silenzio), e lui scuote la testa. Gli chiedo se è un Sadhu, ed ancora scuote la testa. Alla terza domanda, quella sulla sua provenienza, comincia a rispondere con la voce, ma non capisco bene cosa mi stia dicendo. Mi invita a sedere. Poi, improvvisamente, si volta verso il fuoco, e si china a raccogliere un pezzo di brace annerita. Con essa traccia un segno su una roccia che sta tra il fuoco e l’albero.

“Che cosa vedi?”, mi interroga con voce chiara e sicura.

“Un punto nero”, rispondo io.

“ Hai visto il punto nero, che se ne andrà con la prima pioggia, e non questa roccia che c’è sempre stata e sempre sarà.  Come le nuvole e la notte che nascondono il cielo, mentre lui resta sempre azzurro”.

Un attimo di grande silenzio. Avverto la profondità di un insegnamento che va ben oltre la normale interpretazione logica.

Dopo un po lui riprende a parlare. Mi chiede se sono felice. Caspita, che razza di domanda, è ben imbarazzante: nell’animo sappiamo benissimo la risposta, ma non osiamo proferirla. Farfuglio qualcosa, mezzo in indiano e mezzo in inglese, mentre lui abbozza un sorriso di comprensione. Scambiamo ancora qualche parola, quindi mi accomiato, con il desiderio di tornare l’indomani mattina per fotografare l’abete.

La mattina seguente all’alba, quando arrivo all’albero, non c’è più nessuno. Non c’è più la tenda e nessuna traccia di quel bel fuoco che ardeva la sera prima.
Solo una macchia nera, oramai sbiadita, su di una grande roccia.

mercoledì 6 agosto 2014

Il Cedro di Gatotkacha, l'Invincibile Guerriero


Il Lingam in fronte dell'Albero di Gatotkacha. Manali, Himachal Pradesh

Manali è un piccolo paese delle montagne himalaiane, nello stato indiano dell’Himachal Pradesh. E’ situato nel fondo valle del fiume Beas, da un lato del fiume stesso: una valle ampia, che si sviluppa per diverse decine di chilometri, chiusa da due ali di montagne affilate, dai fianchi ripidi ed altissimi. Il Beas nel periodo estivo, gonfio delle acque che provengono dallo scioglimento delle nevi, diventa una massa di energia liquida spaventosa, che scorre velocissima con rumore di tuono, rimbalzando con gran schiumeggio sugli enormi macigni del fondo. Con il nome di Vipash, il Beas è già citato nel Rig Veda, ed in effetti queste terre fanno parte da tempi lontanissimi della geografia sacra dell’India, tanto da essere conosciute come la Terra degli Dei. Manali stesso deve il suo nome a Manu, che nella tradizione indù è considerato il capostipite del genere umano, in pratica il primo uomo della terra. A partire dagli anni ’80, Manali è diventata per gli indiani un ambito luogo di turismo, anche grazie alla sua apparizione in numerose pellicole di Bollywood, in particolare per le giovani coppie in viaggio di nozze. Con il boom economico che sta vivendo il paese, il turismo nazionale è letteralmente esploso, portando alla costruzione di abitazioni, seconde case, ristoranti, hotel e resort di lusso, rigorosamente in cemento armato, con il conseguente stravolgimento dell’originario assetto urbanistico, e la rarefazione delle originali case di legno a due piani, con le stalle al piano terra e le abitazioni a quello superiore,  e con i tetti coperti di sottile pietra grigia. Manali è divenuto anche il trafficato punto di partenza dei 470 km della terribile strada che conduce a Leh, in Ladakh, che con i suoi 5 passi intorno ai 5,000 metri e gli sconvolgenti paesaggi attraversati, promette emozioni ed avventura.

Una delle mete d’obbligo per chi visita Manali, è il Tempio di Hadimba (o Hidimba) Devi, la quale insieme a Manu è la divinità tutelare del paese. Posto più in alto rispetto al centro, sorge all’interno di un bel parco di cedri dell’Himalaya, alcuni dei quali secolari ed enormi, intercalati da aiuole allietate da cespugli di ortensie azzurre e da gladioli multicolori. L’atmosfera del parco concilia serenità e devozione: ai molti turisti indiani corrispondono venditori di chincaglierie varie, donne che lavorano a maglia completini per bambini, venditori di zafferano, bambini con rugginose piccole bilance a pagamento, carrettini del gelato, conduttori di yak bianchi e neri, ansimanti per il troppo caldo, su cui fotografarsi seduti, donne con più maneggevoli conigli bianchi dal lungo pelo, sempre per le fotografie dei turisti.

Il Tempio di Hadimba Devi
Nella sua forma attuale il Tempio, monumento nazionale, risale al 1553: costruito interamente di legno, ha pianta quadrata, con tre tetti sovrapposti tipo pagoda, ed un cono terminale, quest’ultimo in materiale metallico. La facciata ed i montanti di finestre e porte sono finemente scolpiti con rappresentazioni di divinità, di danzatori e di figure varie; alle pareti esterne sono appese diverse paia di corna di toro e capra. Il sancta sanctorum si trova  poco sotto il livello del pavimento, ed è costituito da una minuscola cavità rocciosa, coperta da una pietra naturale, con una piccola murti della Dea. Ai lati della scalinata di accesso, due enormi cedri deodara, probabilmente contemporanei dell’edificazione del Tempio, si elevano dritti e possenti fino a toccare il cielo.

La storia di Hadimba è narrata nel Mahabharata che, insieme al Ramayana, è la principale opera epica della letteratura indù. Durante le loro peregrinazioni, i cinque fratelli Pandava, e la loro madre, Kunti, si trovarono ad attraversare una foresta dove viveva e spadroneggiava un terribile rakshas (una sorta di demone dei boschi), di nome Hadimb, il cui cibo preferito era la carne umana. Questi inviò sua sorella, Hadimba, affinché uccidesse e gli portasse i corpi dei Pandava. Ma quando Hadimba giunse al cospetto dei fratelli, si innamorò subitamente di Bheema, il più forte dei cinque, e desistette dalla sua missione. Il fratello, infuriato per la disobbedienza, giunse sul luogo ed ingaggiò un violento combattimento con Bheema, che lo sconfisse e lo uccise. In seguito l’eroe accettò di sposare Hadimba e di avere un figlio con lei. Nacque così Gatotkacha, il cui nome significa letteralmente vaso senza capelli, a ricordare la sua testa pelata, a forma di ghatam, un tipo di percussione in terracotta dell’India del Sud. Appena nato, il bambino si trasformò in un possente giovane, e venne istruito dai Pandava nell’arte della guerra, diventando un guerriero invincibile. Dopo questi fatti, Hadimba rimase nel luogo dove sorge il tempio, assorta in una vita di meditazione e penitenza, sino a divenire una Dea. Gatotkacha avrà invece un ruolo fondamentale nella vittoria dei Pandava nella battaglia finale di Kurukshetra. Venute oramai meno le antiche regole di cavalleria, quando nel corso della battaglia si cominciò a combattere anche di notte, Gatotkacha, che in virtù della progenitrice rakshasi vedeva le sue forze centuplicarsi di notte, e grazie ai suoi poteri magici, da solo uccise un incredibile numero di nemici, diventando un incubo per le schiere dei Kaurava. Al punto che Duryodhana, il maggiore tra i cento fratelli Kaurava, chiese a Karna di abbatterlo utilizzando l’arma divina che esso possedeva, Amogh, donatagli dal dio Indra. Quest’arma poteva però essere utilizzata una sola volta, e Karna l’aveva riservata per Arjuna, il più valoroso dei Pandava: impiegandola per uccidere Gatotkacha, niente poté più contrastare l’impeto di Arjuna, e la battaglia volse decisamente in favore dei Pandava.

Il Cedro di Gatotkacha

Gatotkacha, il cui culto è piuttosto diffuso in tutta la valle, viene ricordato e venerato presso un albero sacro che vive ad un centinaio di metri dal tempio di sua madre. Si tratta di un Cedro dell’Himalaya (Cedrus deodara), pianta il cui legno, dotato di eccezionali doti di resistenza e durevolezza, ben si presta a rappresentare l’eroico guerriero. Non è un albero di particolare imponenza, anzi è ancora piuttosto giovane, non avendo più di 70/80 anni, ed è quindi presumibile che sia stato piantato in seguito, magari in sostituzione di un precedente esemplare venuto meno, visto che il culto di Gatotkacha in questo preciso luogo è considerato antichissimo. (E considerato anche che i templi in India non vengono mai spostati di ubicazione). La base del cedro è incorniciata da una piattaforma quadrata con i lati di bruttissimi mattoni a vista (il tempio è stato restaurato nel 1997). Sulla piattaforma, addossato al tronco, vi è un lingam di pietra scura, e tutt’intorno sono disposti gli accessori che caratterizzano normalmente gli alberi sacri: rappresentazioni di divinità, incensieri, lumini ad olio, offerte di fiori e cocco deposte di fresco, drappi di stoffa colorati e campane appese ai rami. Ma la maggior parte delle offerte deposte ai piedi dell’albero, sono del tutto particolari e singolari. Si tratta di un intricato groviglio di coltelli e lame di ogni tipo e foggia, disposto intorno al tronco, accompagnati da altri oggetti di ferro, tra cui numerosi trisul (il tridente, uno dei simboli di Shiva), oltre a sagome in lamiera di figure umane, chiavi, chiodi, tondini da cemento armato e quant’altro. Alcuni chiodi sono conficcati direttamente sul tronco; ad una certa altezza da terra fanno mostra di se due piccole sciabole incrociate, di provenienza inglese. 

Coltelli e ferri alla base del cedro di Gatotkacha

Se l’offerta di armi da parte dei devoti può essere letta come un giusto tributo al valore dell’antico guerriero, bisogna ricordare che in queste montagne è ancora viva la superstizione che il ferro tenga lontana ogni tipo di disgrazia, e la conseguente pratica di conficcare chiodi negli alberi e di offrire loro oggetti di ferro. Caratteristiche sono poi le graziose rappresentazioni in miniatura di case, realizzate sempre in lamiera, e le corna di capra sospese al tronco. All’albero vengono tributati anche sacrifici animali, galline e capre, secondo un’usanza che purtroppo si mantiene ancora in alcune zone delle montagne indiane. 

Ai piedi dell'Albero di Gatotkacha
 

 

venerdì 7 marzo 2014

Il Neem, Albero della Buona Medicina


Albero di Neem (Azadirachta indica). Orchha, Madhya Pradesh





Dove cresce il Neem, non c’è posto per la morte e per la malattia (Antico proverbio indiano)

Una mattina di tanti anni fa, durante uno dei miei primi viaggi in India, chiesi ad un anziano signore, seduto placido e beato sotto un grande albero, con lo sguardo rivolto verso la chioma, che specie di pianta fosse quella. “E’ un Neem – mi rispose gentilmente – E’ la farmacia del nostro villaggio. Sto aspettando che apra”. La seconda parte della frase mi sembrò alquanto bizzarra. Rimasi comunque a fare due chiacchiere con il vecchio, e dopo poco nella strampalata chioma dell’albero apparve un gruppetto di scimmie rosse, che si misero insieme a rosicchiare dei rametti. Vuoi il rosicchiamento, vuoi il peso e l’agitazione degli ospiti, alcuni rametti si spezzarono e caddero ai piedi del tronco. Il vecchio allora si alzò, li raccolse, li mise accuratamente in una borsa di tela, mi salutò sorridendo e se ne andò verso i fatti suoi. 
Il Neem è sicuramente una delle piante più conosciute ed amate dell’intera India, oltre che delle più utili ed apprezzate, in virtù delle sue straordinarie proprietà. Come ebbi a leggere su una pubblicità di un periodico locale: “Il Neem vi assicura la copertura medica dalla culla alla pira funeraria”. Enunciato efficace, ed indiscutibilmente vero. Da almeno 4.000 anni le foglie, i frutti, i semi, i fiori e la corteccia del Neem, o loro estratti e derivati, sono utilizzati non solo come medicinali, efficaci nel trattamento di numerosissime malattie dell’uomo e degli animali, ma anche per produrre cosmetici, dai saponi ai moderni dentifrici, ed in campo agricolo, per combattere le malattie parassitarie delle piante, come ammendante per il terreno, e per conservare i prodotti alimentari.

mercoledì 29 gennaio 2014

I Grandi Banyan dell'India


Il fiume Narmada. Sullo sfondo, nella metà destra, la chioma di Kabir Vad. Bharuch, Gujarat.


“Ho cercato un uomo corrotto, ma non ne ho trovato alcuno. Allora ho cercato dentro me, e l’ho trovato nel mio io” (Kabir Das)

Quello che segue è un resoconto parziale del viaggio che ho fatto in India per le recenti vacanze natalizie, in buona parte dedicato alla ricerca dei grandi Banyan del Paese. I quattro Alberi da me scelti sono disseminati per mezza India, talvolta poco conosciuti fuori dalle loro zone, faticosi da raggiungere, e non sono che una parte di quelli che varrebbe la pena conoscere. 
(Per le caratteristiche generali del Banyan, vedi Post Alberi Sacri dell’India: ilBanyan, Albero dei Desideri)

Il primo grande Banyan abita ad una trentina di chilometri da Bangalore, e da questa città comincia il mio viaggio. Bangalore si trova nel sud dell’India, conta quasi tre milioni di abitanti, e da tempo si è costituita come polo informatico del Paese. Qui si concentra buona parte del terziario avanzato dell’India, ed anche molti call center internazionali, delocalizzati quaggiù dai paesi ricchi del mondo. L’aeroporto è nuovissimo, ancora in fase di ultimazione, c’è una autostrada a sei corsie che conduce in centro, gli shuttles sono autobus Volvo nuovi di pacca. La città intera è un cantiere a cielo aperto: si sta costruendo la metropolitana sopraelevata, ed i palazzi nuovi, di foggia occidentale, spuntano come funghi. La zona centrale è completamente sventrata: oltre alla metropolitana, è prevista la realizzazione della nuova stazione degli autobus. Il traffico è insostenibile a qualunque ora, il caos è indescrivibile. La città è oramai al collasso ecologico: l’inquinamento da gas di scarico costringe i poliziotti che dirigono, si fa per dire, il traffico, ad indossare mascherine protettive, che rendono incomprensibile il loro continuo vociare. Quei densi fumi grigi in una giornata mi provocano il mal di gola.  Montagnole di plastica varia giacciono ai lati delle strade, in attesa di essere bruciate la notte. L’innata propensione indiana all’anarchia, si è qui tramutata in un parossismo acustico di clacson e motori sfiniti, che mette a dura prova qualunque pazienza. La storia si ripeterà non solo nelle grandi città che dovrò attraversare per raggiungere i miei alberi, ma anche nei centri minori, città da cinquantamila abitanti, che solo venti anni fa sarebbero state delle oasi di tranquillità.