martedì 2 settembre 2014

Sogno di Kheerganga


Kheerganga. Parvati Valley, Himachal Pradesh





Un tempo per raggiungere Kheerganga da Manikaran, laddove finiva la strada per le macchine, occorrevano due giorni abbondanti di cammino. Oggi la costruzione di una delle tante dighe che stanno devastando l’Himalaya ha portato la strada assai più avanti, e si arriva in sole cinque ore. La valle del Parvati diventa sempre più stupenda mano a mano che si risale. La presenza dell’uomo lascia quasi d’improvviso il posto a quella divina. Montagne dai fianchi infiniti, l’azzurro del cielo, il fiume che sbuffando e ruggendo rimbalza sugli spaventosi macigni del fondo, irretito dallo scorrere tra pareti sempre più strette. E poi la foresta, che ricopre il fianco sinistro della valle. Viva, densa, misteriosa, grande, come grande è quassù ogni manifestazione della Natura. Lasciati gli eleganti cedri più in basso, il bosco si compone di enormi abeti e picee, che puntano diritti verso il cielo le loro chiome raccolte, con i tronchi segnati dalle cicatrici del tempo, saldamente aggrappati ad una terra che sfugge ripida sotto i piedi. Nei pochi tratti meno declivi, noci mai visti riempiono con rami contorti e potenti lo spazio aereo, e dilatano le basi dei loro fusti verso ampiezze spropositate e disegni accattivanti.

Kheerganga è un’ ampia radura erbosa che si apre improvvisa nel bosco, su un tratto comunque in discreta pendenza. E’ luogo sommamente sacro: si racconta che il figlio del dio Shiva, Kartikeya, trascorse qui 14.000 anni immerso in una profonda meditazione, ottenendo che dalla terra sgorgasse una sorgente di dolcissimo kheer (dolce liquido indiano, a base di riso, latte, spezie e zucchero), la quale dopo varie vicissitudini si trasformò nell’attuale sorgente di acqua calda, accreditata di incredibili proprietà curative. La sorgente alimenta una grande vasca situata in cima alla radura, che si apre come una terrazza sulla valle. E’ una sensazione bellissima immergersi dopo una giornata di sudore ed osservare tranquillo e beato il mondo dintorno, che se ne sta in tranquilla immobilità.

Tornando dall’immersione verso la mia guest house post industriale, fatta di compensato e plastica, ho visto sulla destra un albero che sovrastava tutti gli altri suoi fratelli. Mi sono quindi avviato, trovandomi di fronte un vecchissimo noce, il più grande che avessi mai visto. Ma non ho fatto in tempo a bearmi della visione, che una sottile colonna di fumo, proveniente dall’interno del bosco, ha attirato la mia attenzione. Assai incuriosito, ho proseguito in quella direzione. Era un profumato fuocherello di cedro, acceso su una piazzola, accanto ad una tendina, e davanti ad un vegliardo abete, sicuramente per maestosità il re di tutti quelli incontrati nella giornata. Tra le sue gigantesche radici si apriva una cavità, grande abbastanza da permettere ad un uomo di sedervi dentro. Quando mi ha visto, si è alzato e si è avvicinato al fuoco. Era vestito di una lunga tunica arancione, giovane, con un faccione aperto e sorridente, rinchiuso tra una lunga barba nerissima. Il suo viso aveva il colore scuro delle genti del sud. Lo saluto, e lui mi risponde a gesti. Gli chiedo se è per caso un muni (devoti che fanno il voto del silenzio), e lui scuote la testa. Gli chiedo se è un Sadhu, ed ancora scuote la testa. Alla terza domanda, quella sulla sua provenienza, comincia a rispondere con la voce, ma non capisco bene cosa mi stia dicendo. Mi invita a sedere. Poi, improvvisamente, si volta verso il fuoco, e si china a raccogliere un pezzo di brace annerita. Con essa traccia un segno su una roccia che sta tra il fuoco e l’albero.

“Che cosa vedi?”, mi interroga con voce chiara e sicura.

“Un punto nero”, rispondo io.

“ Hai visto il punto nero, che se ne andrà con la prima pioggia, e non questa roccia che c’è sempre stata e sempre sarà.  Come le nuvole e la notte che nascondono il cielo, mentre lui resta sempre azzurro”.

Un attimo di grande silenzio. Avverto la profondità di un insegnamento che va ben oltre la normale interpretazione logica.

Dopo un po lui riprende a parlare. Mi chiede se sono felice. Caspita, che razza di domanda, è ben imbarazzante: nell’animo sappiamo benissimo la risposta, ma non osiamo proferirla. Farfuglio qualcosa, mezzo in indiano e mezzo in inglese, mentre lui abbozza un sorriso di comprensione. Scambiamo ancora qualche parola, quindi mi accomiato, con il desiderio di tornare l’indomani mattina per fotografare l’abete.

La mattina seguente all’alba, quando arrivo all’albero, non c’è più nessuno. Non c’è più la tenda e nessuna traccia di quel bel fuoco che ardeva la sera prima.
Solo una macchia nera, oramai sbiadita, su di una grande roccia.