giovedì 15 ottobre 2015

Carlo Bertocci, un Pittore nel Bosco


Nello scorso mese di agosto, in vacanza nella valle dell'Orsigna sull'Appennino pistoiese, ho avuto il piacere di conoscere Carlo Bertocci, un pittore che ama inserire nelle sue opere alberi e boschi di quella amena valle. Carlo mi ha gentilmente inviato le immagini di alcuni dipinti, acconsentendo alla loro pubblicazione sul Blog.


'Tra le ortiche', olio su tela cm 200 x 120

'La voce del noce', 2012, olio su tela cm 80 x 80

'Arboreo', 2015, olio su tela cm 104 x 93

'Psss', 2013, olio su tela cm 150 x 200

'Veder, verde, veder', 2013, trittico cm 60 X (100 + 80 + 100)







sabato 11 luglio 2015

Le Origini del Culto degli Alberi in India: la Civiltà di Harappa


Laila con i suoi amici in visita all'emaciato Majnun. Dipinto su carta 1740 - 1750 ca. National Museum, New Delhi

La lunga storia degli Alberi sacri dell’India comincia ufficialmente circa 5.000 anni fa nel misterioso scenario della civiltà dell’Indo, conosciuta anche come civiltà di Harappa, dal nome di quella che fu una delle sue città più importanti. Si trattò di una civiltà assai sviluppata e progredita, fiorita nelle valli dei fiumi Indo e Saraswati (quest’ultimo scomparso in epoca imprecisata, probabilmente a causa di un tremendo terremoto), nell’area geografica attualmente a cavallo del confine meridionale tra India e Pakistan. Contemporanea delle civiltà mesopotamiche, cretesi e dell’antico Egitto, e costituita da popolazioni pre-ariane, provenienti dalle regioni orientali del Belucistan, si caratterizzò nella sua fase di massimo splendore (circa dal 2.600 al 2.000 a.C.) come la prima civiltà urbana nella storia dell’umanità. Le sue città principali, Harappa e Moenhjodaro, i cui resti vennero alla luce nel corso di scavi archeologici intrapresi a partire dal 1922, ed i numerosi altri centri urbani, non erano città stato come quelle delle culture sopra citate, ma facevano parte di un tessuto integrato, una sorta di “impero” (anche se non abbiamo alcuna evidenza di un potere temporale di tipo regale o sacerdotale), che comprendeva anche estese aree rurali, costellate di molteplici villaggi. I resti emersi dagli scavi, rivelano città dalla raffinata struttura urbanistica: costruite in mattoni e pietra, erano dotate di un efficace sistema di approvigionamento, distribuzione e scarico delle acque, e di una capillare viabilità interna, formata da ampie strade che si incrociavano ad angolo retto, e da vicoli secondari che davano accesso alle costruzioni interne. Tutte le città erano costituite da una parte alta, posta su piattaforme artificiali di terra battuta, chiamata “cittadella”, che ospitava tra l’altro  edifici di carattere religioso-cerimoniale, e da una parte bassa, destinata alle abitazioni del popolo ed alle botteghe; il tutto era circondato da mura fortificate. La popolazione urbana, che si stima in alcuni siti abbia raggiunto le 30.000 unità, si dedicava all’artigianato ed al commercio [1]; nelle aree rurali si coltivava grano, cotone, sesamo e piselli, e si allevavano animali, tra cui il bufalo ed il cavallo. Gli harappiani ebbero anche una discreta attività artistica, rivelata nelle ceramiche, nelle statuine antropomorfe o di animali, fatte di metallo o terracotta, oppure scolpite nell’avorio, nei gioielli in oro ed argento, in vari manufatti di rame o di bronzo. Elaborarono uno dei primi sistemi di scrittura dell’umanità, composta da circa 450 simboli ideografici, e che a causa della frammentarietà dei reperti pervenutici, non è ancora stata decifrata.

venerdì 10 luglio 2015

Area download


Pubblico oggi una nuova pagina: "Area download".  Troverete qui i link per scaricare materiale vario: produzioni personali ed altre pubblicazioni interessanti sul mondo degli Alberi. Si accede cliccando sulla corrispondente voce nel banner sotto l'immagine iniziale.

sabato 21 febbraio 2015

Perchè la Quercia non Perde le Foglie d'Inverno


La Quercia delle Streghe (Quercus robur). Gragnano, Lucca


Alcune specie di Quercia, in primis la Roverella, d'inverno non perdono le foglie pur non essendo sempreverdi: il loro fogliame secca normalmente in autunno, ma permane sulla pianta fino alla primavera successiva, quando finalmente cadrà con lo spuntare delle nuove foglie. Una leggenda sarda raccolta da Cattabiani nel suo “Florario” (vedi bibliografia), spiega così l’origine di questo fenomeno:

Un giorno il Diavolo si recò dal Signore e gli disse:
“Tu possiedi tutto il creato, mentre io non possiedo nulla. Concedimi una qualche signoria su una parte della creazione, mi accontento di poco”.
“E che cosa vorresti?” – domandò il Signore.
“Dammi il potere su tutto il bosco” – fu la proposta del Diavolo.
“Così sia – stabilì il Signore – ma soltanto nel periodo in cui gli alberi del bosco sono completamente senza fogliame; durante il resto dell’anno il potere tornerà a me”.
Quando gli alberi a foglia decidua seppero del patto, cominciarono a preoccuparsi. Non sapendo cosa fare, al Faggio venne in mente di consultare la Quercia, che era l’albero più anziano e saggio del bosco. Dopo avere riflettuto, la Quercia disse:
“Cercherò di trattenere le mie foglie secche sui rami, fintanto che a voi non spunteranno le foglioline nuove! Così il bosco non sarà mai completamente spoglio, ed il Demonio non avrà alcun potere su di noi”.
Così fece, ed il Diavolo rimase scornato anche questa volta.

martedì 17 febbraio 2015

I Bishnois, la Comunità Teo - Ecologica


“Amate gli animali. Non abbattete gli alberi. E nella vita non conoscerete avversità”
Guru Jambeshwar

La fine della stagione delle piogge ha finalmente portato sollievo alla terra ed ai suoi abitanti, sfiniti da mesi di calura ed umidità. Quel giorno Amrita si è recata molto presto al lavoro nel bosco, per godersi l’ aria fresca e pulita del mattino. C’è da fare l’erba per gli animali, che dopo le piogge cresce generosa nelle ampie radure: anche le bestie aspettano cibo fresco, finalmente. Amrita è ancora giovane, ma è già madre di tre figlie. Accucciata sui talloni, muove il falcetto con movimenti regolari ed efficaci, e sembra sbrigarsela molto bene in quell'opera. Suo marito è nei campi, insieme agli altri uomini del villaggio, a preparare i terreni per la semina, la figlia grande è rimasta a casa a fare le faccende domestiche, e le due piccine sono lì con lei, che giocano sorridenti sul margine del bosco.
Ogni tanto Amrita volge gli occhi al cielo, e rimira con amore quei vecchi alberi di Khejri, le loro chiome allargate, le tenere foglioline sazie d’acqua, contenta che siano lì a farle compagnia. Non c’era stato bisogno che suo padre ed il suo maestro le avessero  insegnato il rispetto per la sacralità attribuita a quegli alberi dalla sua comunità, perché lei li amava già da prima, istintivamente. Fin quando ne aveva avuto il tempo, passava lunghe ore a giocare tra i fusti contorti, ad immaginare storie, a guardare gli uccelli rincorrersi tra i lunghi rami frondosi. Sedere alla loro ombra le riempiva sempre il cuore di gioia. La sua era una vita faticosa, ma nell’anima avvertiva chiaramente  la bellezza di sentirsi parte di una collettività, la sua comunità di persone semplici e gentili, inserita ed integrata nell’universo ristretto del suo villaggio, abbracciato e custodito da quegli antichi alberi.
D’improvviso, mentre tutte insieme si spengono le voci delle creature del bosco, un rumore di cavalli, ruote e ferraglia che giunge dal lato di ponente si fa sempre più nitido, fino a divenire assordante in quella pace. Il rumore prende rapidamente la forma di un nutrito drappello di forestieri, alcuni armati a cavallo, altri su dei grandi carri trainati da pariglie di enormi buoi, e dalle cui fiancate pendono accette seghe e funi. Si fermano in un’ampia radura; gli uomini scendono dai carri, e prendono i loro attrezzi da taglio. Amrita non è la sola persona del villaggio nel bosco quella mattina, ma è la prima a farsi incontro alla comitiva ed a chiedere cosa stessero facendo.
“Siamo qua per tagliare il bosco – risponde sprezzante uno degli uomini armati – Ordine del Maharaj”.
“Ma come – osa la ragazza, nonostante la paura che le infondono quegli estranei – Questo è un bosco sacro, questi sono i nostri amati alberi sacri!”.
Un cavaliere elegantemente vestito, che sembra il capo della spedizione, si fa avanti, ed estratta una piccola borsa da sotto il mantello, le si rivolge con tono stizzito:
“Ringraziate la generosità del Maharaj, invece di protestare! Questo denaro è per tutti voi. Non stiamo rubando niente, stiamo semplicemente comprando la vostra legna”.
“Come si può vendere qualcosa che appartiene a Dio? – risponde accorata Amrita – non vogliamo i soldi, vogliamo continuare a vedere i nostri alberi, verdi e vivi come sempre!”
Il cavaliere, visibilmente contrariato, le si fa incontro con aria minacciosa. Ma Amrita è molto svelta, quindi si volta, e nel tempo di un respiro scompare nel bosco. Sa correre veloce, così in pochi minuti raggiunge il villaggio, e senza riprendere fiato urla ai quattro venti cosa sta succedendo. Qualcuno corre a chiamare gli uomini nei campi, e poco dopo i paesani sono riuniti nella piazza. Ci sono tutti: uomini e donne, vecchi e bambini. Senza indugio si dirigono verso il luogo dei boscaioli. Ai margini della radura tre alberi sono già stati abbattuti; altri due si stanno inclinando sotto i colpi dei taglialegna, in procinto di fare la stessa fine. Gli occhi dei paesani si incrociano stupiti, impauriti, smarriti. I boscaioli ed i soldati ridono e si fanno beffe di loro, continuando la loro opera di distruzione. Quand’ ecco che Amrita corre verso un albero che sta per assaggiare il ferro della scure, e lo abbraccia stretto.
“Se un albero può essere salvato al prezzo della mia vita, allora questo è un buon affare per me!” -  grida la donna.
Animati dal suo gesto, tutti i paesani corrono allora ad abbracciare gli alberi. I taglialegna si guardano tra loro, esitano, e posano a terra gli attrezzi da taglio. Ma i soldati non esitarono. Amrita fu la prima a cadere, decapitata da un colpo di accetta. Al tramonto nessuno era rimasto in piedi: né gli alberi, prontamente caricati sui carri e portati via, né gli esseri umani, che giacevano morti a terra, ancora abbracciati alle ceppaie orfane dei loro tronchi, il rosso del sangue ed il verde della linfa mescolati, come un amaro pianto della terra ferita, in un unico immenso sacrificio. 

domenica 1 febbraio 2015

Un Banyan sacro nella descrizione di Pietro Della Valle, viaggiatore del 17° secolo


Murale lungo il Gange a Varanasi





Dopo questa breve introduzione, ho inserito il testo integrale della descrizione di un Albero sacro dell’India, risalente al 1623, opera del viaggiatore Pietro della Valle. Si tratta di un Albero di Banyan (Ficus benghalensis) che Della Valle incontra poco fuori la città di Surat, in Gujarat, non lontano da dove vive oggi il Banyan conosciuto come Kabir Vad (vedi Post:I Grandi Banyan dell’India). Non si tratta quasi sicuramente dello stesso albero, distanza temporale a parte, visto che Kabir Vad vive, rispetto a Surat, sulla riva opposta del fiume Narmada e Della Valle, solitamento prolisso, non avrebbe tralasciato certo di descrivere questo particolare. Pietro della Valle (1586 – 1652) fu uno scrittore romano di nobile famiglia; nell’anno 1614, in seguito ad una delusione amorosa, partì in nave da Venezia per un viaggio che lo porterà fino in India, attraverso il Medio Oriente, la Mesopotamia e la Persia, e che lo vedrà di ritorno a Roma solamente 12 anni dopo, nel 1626. Della Valle raccontò il suo viaggio in una serie di 54 lettere inviate all’amico Mario Schipano. Il testo qui presentato è tratto da una ristampa del 1843, intitolata, a proposito di prolissità, “Viaggi di Pietro Della Valle il pellegrino, descritti da lui medesimo in lettere familiari all’erudito suo amico Mario Schipano, divisi in tre parti cioè: la Turchia, la Persia e l’India. Colla vita e ritratto dell’autore”. La lettera è la prima della terza parte, quella intitolata “L’India ed il ritorno in patria”.
Dallo scritto traspare un malcelato disprezzo verso una cultura di cui credo che il buon Pietro, forte della convinzione sulla indiscussa superiorità del pensiero e della religione europea, avesse compreso ben poco. Nonostante ciò la descrizione dell’albero sacro, e dei riti popolari compiuti al suo cospetto, risulta un documento storico estremamente interessante, che attesta di fatto l’immutabilità nel tempo di riti ed offerte, perlomeno da quell’epoca ai nostri giorni. Alcuni passi sono anche divertenti, in particolare verso la fine, dove Della Valle risolve il mistero della “fecondazione assistita” (dall’ albero stesso, o da chi per lui). Ho volutamente mantenuto la disquisizione, invero poco pertinente, intorno al seme della pianta di Betel (Areca catechu), da cui il mitico Pan, che gli indiani masticano continuamente, sapendo di fare cosa gradita ai molti che conoscono ed amano l’India.

“Da un’altra parte della città, pur fuori dal recinto delle case, in un largo che vi è, si vede un grande e bell’albero, di quelli che io vidi già nelle marine della Persia presso ad Hormuz, e che scrissi allora chiamarsi colà lui, ma qui lo chiamano ber (antico nome del Banyan). I gentili del paese l’hanno in gran venerazione, per la sua grandezza ed antichità: e lo visitano, e l’onorano spesso con le lor superstiziose cerimonie, come caro, al creder loro, e dedicato ad una lor dea che chiamano Parveti (Parvati, consorte di Shiva); la quale tengono esser moglie di Mahadeu (Mahadeva, uno dei nomi di Shiva), uno de’ maggiori lor numi, da me, se non fallo, altre volte mentovato. In una banda del tronco di questo albero, poco alto da terra, hanno scolpito rozzamente un circolo rotondo, che non ha forma alcuna di vero viso umano; ma, secondo la lor grossolana applicazione, il viso del loro idolo rappresenta. 

sabato 24 gennaio 2015

Il Faggio, Re dell'Appennino


Faggio (Fagus sylvatica) in veste invernale. Val di Luce, Pistoia
Signore incontrastato della montagna appenninica (ma anche molto diffuso nelle Alpi), il Faggio ne domina solitario il paesaggio a partire dagli 800 - 1000 m, formando immense foreste che si adagiano tra monti e valli ancora selvagge. Nei luoghi più fertili slancia altissimi i suoi fusti snelli e diritti verso il cielo, colonne perfette che, insieme ad i rami superiori inarcati dolcemente verso l'alto, disegnano stupende navate verdi. Avvicinandosi al limite della vegetazione combatte ardue battaglie con i gelidi venti invernali, con la neve e con il freddo, ed allora contorce i bassi fusti in forme sofferenti, schiacciandoli verso il suolo per carpire il calore della terra; a volte si raggruppa a chiazze, intramezzato da scontrosi cespugli di deliziosi mirtilli. Talora qualche antico esemplare nodoso e pieno di rami sinuosi si drizza solitario, ben oltre il limite del bosco. Il Faggio non ama molto la compagnia degli altri alberi, e stringe amicizia solo con l'acero, il sorbo, il salicone, e qualche volta con l'abete bianco, ai quali lascia spazio laddove la sua copertura si fa più chiara. Nei boschi densi, non lascia luce neanche per le rustiche erbe del sottobosco, ed il suolo è coperto da una densa e soffice coltre di foglie accumulate: solo i porcini e le amanite, i funghi più belli, sono ammessi ai suoi piedi, ad ammirarne la maestà.
Non è pianta che vive molto a lungo, non superando in genere i trecento anni di età (ovviamente, tutto è relativo, è poco longeva per il mondo degli alberi!); il suo tronco è tra l’altro facilmente attaccabile da funghi, che entrano dalle ferite lasciate dai grossi rami caduti o tagliati dall’uomo, e lo possono nel tempo portare a morte. E' in grado di raggiungere dimensioni di tutto rispetto, fino a 40 metri di altezza e 2 metri di diametro del tronco. Nella foresta di Acquerino, in provincia di Pistoia, viveva un tempo quello che era considerato il più famoso Faggio d'Italia, e che ho avuto la fortuna di conoscere quando ero ancora bambino. Lo ricordo ergersi imperioso al centro di un’ampia radura perfettamente circolare, a lato di una minuscola, al suo confronto, casetta di pietre, con l’enorme tronco ricco di anfratti e curve bizzarre, la chioma densa di fogliame che si allargava smisurata, sorretta da rami che parevano essi stessi grossi alberi. Nella memoria alterata dell’infanzia, l’albero più grande che abbia mai visto in vita mia: so che non è vero, ma mi piace pensarla così. Conosciuto come “Faggione delle Valli”, aveva anche un soprannome, “il Faggissimo”, superlativo insolito e scorretto, che sembra però dar ragione alla mia memoria. Alto più di 30 metri, aveva una circonferenza alla base di 9,6 metri, e di ben 11 metri sotto la prima impalcatura di rami; la chioma misurava circa 100 metri di circonferenza, che fanno quasi 800 metri quadrati di superficie coperta. Alla cui ombra, nei caldi meriggi d’estate, s’acquattavano comodamente alcune centinaia di pecore. In una notte di violenta tempesta del 1978, un fulmine lo divise in due e ne atterrò una metà: la parte che restò in piedi era ancora imponente. Indebolito dalla pesante mutilazione, il bruscello di fine anno del 1995 lo abbatté definitivamente. Aveva più di 500 anni, un record per la specie.

Il Faggione delle Valli in una vecchia foto. Foresta di Acquerino, Pistoia.

domenica 11 gennaio 2015

I Nomi degli Alberi

Pubblico oggi una nuova Pagina dedicata ai Nomi degli Alberi. Ad essa si accede cliccando l'omonima voce nel banner sotto l'immagine iniziale del Blog. Su di essa troverete nomi comuni, scientifici e nelle principali lingue europee, e notizie sull'origine dei nomi degli alberi. E' una Pagina "work in progress": si comincia con 8 specie, e l'intenzione è quella di aggiornarla periodicamente.

Buona lettura!