sabato 21 febbraio 2015

Perchè la Quercia non Perde le Foglie d'Inverno


La Quercia delle Streghe (Quercus robur). Gragnano, Lucca


Alcune specie di Quercia, in primis la Roverella, d'inverno non perdono le foglie pur non essendo sempreverdi: il loro fogliame secca normalmente in autunno, ma permane sulla pianta fino alla primavera successiva, quando finalmente cadrà con lo spuntare delle nuove foglie. Una leggenda sarda raccolta da Cattabiani nel suo “Florario” (vedi bibliografia), spiega così l’origine di questo fenomeno:

Un giorno il Diavolo si recò dal Signore e gli disse:
“Tu possiedi tutto il creato, mentre io non possiedo nulla. Concedimi una qualche signoria su una parte della creazione, mi accontento di poco”.
“E che cosa vorresti?” – domandò il Signore.
“Dammi il potere su tutto il bosco” – fu la proposta del Diavolo.
“Così sia – stabilì il Signore – ma soltanto nel periodo in cui gli alberi del bosco sono completamente senza fogliame; durante il resto dell’anno il potere tornerà a me”.
Quando gli alberi a foglia decidua seppero del patto, cominciarono a preoccuparsi. Non sapendo cosa fare, al Faggio venne in mente di consultare la Quercia, che era l’albero più anziano e saggio del bosco. Dopo avere riflettuto, la Quercia disse:
“Cercherò di trattenere le mie foglie secche sui rami, fintanto che a voi non spunteranno le foglioline nuove! Così il bosco non sarà mai completamente spoglio, ed il Demonio non avrà alcun potere su di noi”.
Così fece, ed il Diavolo rimase scornato anche questa volta.

martedì 17 febbraio 2015

I Bishnois, la Comunità Teo - Ecologica


“Amate gli animali. Non abbattete gli alberi. E nella vita non conoscerete avversità”
Guru Jambeshwar

La fine della stagione delle piogge ha finalmente portato sollievo alla terra ed ai suoi abitanti, sfiniti da mesi di calura ed umidità. Quel giorno Amrita si è recata molto presto al lavoro nel bosco, per godersi l’ aria fresca e pulita del mattino. C’è da fare l’erba per gli animali, che dopo le piogge cresce generosa nelle ampie radure: anche le bestie aspettano cibo fresco, finalmente. Amrita è ancora giovane, ma è già madre di tre figlie. Accucciata sui talloni, muove il falcetto con movimenti regolari ed efficaci, e sembra sbrigarsela molto bene in quell'opera. Suo marito è nei campi, insieme agli altri uomini del villaggio, a preparare i terreni per la semina, la figlia grande è rimasta a casa a fare le faccende domestiche, e le due piccine sono lì con lei, che giocano sorridenti sul margine del bosco.
Ogni tanto Amrita volge gli occhi al cielo, e rimira con amore quei vecchi alberi di Khejri, le loro chiome allargate, le tenere foglioline sazie d’acqua, contenta che siano lì a farle compagnia. Non c’era stato bisogno che suo padre ed il suo maestro le avessero  insegnato il rispetto per la sacralità attribuita a quegli alberi dalla sua comunità, perché lei li amava già da prima, istintivamente. Fin quando ne aveva avuto il tempo, passava lunghe ore a giocare tra i fusti contorti, ad immaginare storie, a guardare gli uccelli rincorrersi tra i lunghi rami frondosi. Sedere alla loro ombra le riempiva sempre il cuore di gioia. La sua era una vita faticosa, ma nell’anima avvertiva chiaramente  la bellezza di sentirsi parte di una collettività, la sua comunità di persone semplici e gentili, inserita ed integrata nell’universo ristretto del suo villaggio, abbracciato e custodito da quegli antichi alberi.
D’improvviso, mentre tutte insieme si spengono le voci delle creature del bosco, un rumore di cavalli, ruote e ferraglia che giunge dal lato di ponente si fa sempre più nitido, fino a divenire assordante in quella pace. Il rumore prende rapidamente la forma di un nutrito drappello di forestieri, alcuni armati a cavallo, altri su dei grandi carri trainati da pariglie di enormi buoi, e dalle cui fiancate pendono accette seghe e funi. Si fermano in un’ampia radura; gli uomini scendono dai carri, e prendono i loro attrezzi da taglio. Amrita non è la sola persona del villaggio nel bosco quella mattina, ma è la prima a farsi incontro alla comitiva ed a chiedere cosa stessero facendo.
“Siamo qua per tagliare il bosco – risponde sprezzante uno degli uomini armati – Ordine del Maharaj”.
“Ma come – osa la ragazza, nonostante la paura che le infondono quegli estranei – Questo è un bosco sacro, questi sono i nostri amati alberi sacri!”.
Un cavaliere elegantemente vestito, che sembra il capo della spedizione, si fa avanti, ed estratta una piccola borsa da sotto il mantello, le si rivolge con tono stizzito:
“Ringraziate la generosità del Maharaj, invece di protestare! Questo denaro è per tutti voi. Non stiamo rubando niente, stiamo semplicemente comprando la vostra legna”.
“Come si può vendere qualcosa che appartiene a Dio? – risponde accorata Amrita – non vogliamo i soldi, vogliamo continuare a vedere i nostri alberi, verdi e vivi come sempre!”
Il cavaliere, visibilmente contrariato, le si fa incontro con aria minacciosa. Ma Amrita è molto svelta, quindi si volta, e nel tempo di un respiro scompare nel bosco. Sa correre veloce, così in pochi minuti raggiunge il villaggio, e senza riprendere fiato urla ai quattro venti cosa sta succedendo. Qualcuno corre a chiamare gli uomini nei campi, e poco dopo i paesani sono riuniti nella piazza. Ci sono tutti: uomini e donne, vecchi e bambini. Senza indugio si dirigono verso il luogo dei boscaioli. Ai margini della radura tre alberi sono già stati abbattuti; altri due si stanno inclinando sotto i colpi dei taglialegna, in procinto di fare la stessa fine. Gli occhi dei paesani si incrociano stupiti, impauriti, smarriti. I boscaioli ed i soldati ridono e si fanno beffe di loro, continuando la loro opera di distruzione. Quand’ ecco che Amrita corre verso un albero che sta per assaggiare il ferro della scure, e lo abbraccia stretto.
“Se un albero può essere salvato al prezzo della mia vita, allora questo è un buon affare per me!” -  grida la donna.
Animati dal suo gesto, tutti i paesani corrono allora ad abbracciare gli alberi. I taglialegna si guardano tra loro, esitano, e posano a terra gli attrezzi da taglio. Ma i soldati non esitarono. Amrita fu la prima a cadere, decapitata da un colpo di accetta. Al tramonto nessuno era rimasto in piedi: né gli alberi, prontamente caricati sui carri e portati via, né gli esseri umani, che giacevano morti a terra, ancora abbracciati alle ceppaie orfane dei loro tronchi, il rosso del sangue ed il verde della linfa mescolati, come un amaro pianto della terra ferita, in un unico immenso sacrificio. 

domenica 1 febbraio 2015

Un Banyan sacro nella descrizione di Pietro Della Valle, viaggiatore del 17° secolo


Murale lungo il Gange a Varanasi





Dopo questa breve introduzione, ho inserito il testo integrale della descrizione di un Albero sacro dell’India, risalente al 1623, opera del viaggiatore Pietro della Valle. Si tratta di un Albero di Banyan (Ficus benghalensis) che Della Valle incontra poco fuori la città di Surat, in Gujarat, non lontano da dove vive oggi il Banyan conosciuto come Kabir Vad (vedi Post:I Grandi Banyan dell’India). Non si tratta quasi sicuramente dello stesso albero, distanza temporale a parte, visto che Kabir Vad vive, rispetto a Surat, sulla riva opposta del fiume Narmada e Della Valle, solitamento prolisso, non avrebbe tralasciato certo di descrivere questo particolare. Pietro della Valle (1586 – 1652) fu uno scrittore romano di nobile famiglia; nell’anno 1614, in seguito ad una delusione amorosa, partì in nave da Venezia per un viaggio che lo porterà fino in India, attraverso il Medio Oriente, la Mesopotamia e la Persia, e che lo vedrà di ritorno a Roma solamente 12 anni dopo, nel 1626. Della Valle raccontò il suo viaggio in una serie di 54 lettere inviate all’amico Mario Schipano. Il testo qui presentato è tratto da una ristampa del 1843, intitolata, a proposito di prolissità, “Viaggi di Pietro Della Valle il pellegrino, descritti da lui medesimo in lettere familiari all’erudito suo amico Mario Schipano, divisi in tre parti cioè: la Turchia, la Persia e l’India. Colla vita e ritratto dell’autore”. La lettera è la prima della terza parte, quella intitolata “L’India ed il ritorno in patria”.
Dallo scritto traspare un malcelato disprezzo verso una cultura di cui credo che il buon Pietro, forte della convinzione sulla indiscussa superiorità del pensiero e della religione europea, avesse compreso ben poco. Nonostante ciò la descrizione dell’albero sacro, e dei riti popolari compiuti al suo cospetto, risulta un documento storico estremamente interessante, che attesta di fatto l’immutabilità nel tempo di riti ed offerte, perlomeno da quell’epoca ai nostri giorni. Alcuni passi sono anche divertenti, in particolare verso la fine, dove Della Valle risolve il mistero della “fecondazione assistita” (dall’ albero stesso, o da chi per lui). Ho volutamente mantenuto la disquisizione, invero poco pertinente, intorno al seme della pianta di Betel (Areca catechu), da cui il mitico Pan, che gli indiani masticano continuamente, sapendo di fare cosa gradita ai molti che conoscono ed amano l’India.

“Da un’altra parte della città, pur fuori dal recinto delle case, in un largo che vi è, si vede un grande e bell’albero, di quelli che io vidi già nelle marine della Persia presso ad Hormuz, e che scrissi allora chiamarsi colà lui, ma qui lo chiamano ber (antico nome del Banyan). I gentili del paese l’hanno in gran venerazione, per la sua grandezza ed antichità: e lo visitano, e l’onorano spesso con le lor superstiziose cerimonie, come caro, al creder loro, e dedicato ad una lor dea che chiamano Parveti (Parvati, consorte di Shiva); la quale tengono esser moglie di Mahadeu (Mahadeva, uno dei nomi di Shiva), uno de’ maggiori lor numi, da me, se non fallo, altre volte mentovato. In una banda del tronco di questo albero, poco alto da terra, hanno scolpito rozzamente un circolo rotondo, che non ha forma alcuna di vero viso umano; ma, secondo la lor grossolana applicazione, il viso del loro idolo rappresenta.