sabato 11 luglio 2015

Le Origini del Culto degli Alberi in India: la Civiltà di Harappa


Laila con i suoi amici in visita all'emaciato Majnun. Dipinto su carta 1740 - 1750 ca. National Museum, New Delhi

La lunga storia degli Alberi sacri dell’India comincia ufficialmente circa 5.000 anni fa nel misterioso scenario della civiltà dell’Indo, conosciuta anche come civiltà di Harappa, dal nome di quella che fu una delle sue città più importanti. Si trattò di una civiltà assai sviluppata e progredita, fiorita nelle valli dei fiumi Indo e Saraswati (quest’ultimo scomparso in epoca imprecisata, probabilmente a causa di un tremendo terremoto), nell’area geografica attualmente a cavallo del confine meridionale tra India e Pakistan. Contemporanea delle civiltà mesopotamiche, cretesi e dell’antico Egitto, e costituita da popolazioni pre-ariane, provenienti dalle regioni orientali del Belucistan, si caratterizzò nella sua fase di massimo splendore (circa dal 2.600 al 2.000 a.C.) come la prima civiltà urbana nella storia dell’umanità. Le sue città principali, Harappa e Moenhjodaro, i cui resti vennero alla luce nel corso di scavi archeologici intrapresi a partire dal 1922, ed i numerosi altri centri urbani, non erano città stato come quelle delle culture sopra citate, ma facevano parte di un tessuto integrato, una sorta di “impero” (anche se non abbiamo alcuna evidenza di un potere temporale di tipo regale o sacerdotale), che comprendeva anche estese aree rurali, costellate di molteplici villaggi. I resti emersi dagli scavi, rivelano città dalla raffinata struttura urbanistica: costruite in mattoni e pietra, erano dotate di un efficace sistema di approvigionamento, distribuzione e scarico delle acque, e di una capillare viabilità interna, formata da ampie strade che si incrociavano ad angolo retto, e da vicoli secondari che davano accesso alle costruzioni interne. Tutte le città erano costituite da una parte alta, posta su piattaforme artificiali di terra battuta, chiamata “cittadella”, che ospitava tra l’altro  edifici di carattere religioso-cerimoniale, e da una parte bassa, destinata alle abitazioni del popolo ed alle botteghe; il tutto era circondato da mura fortificate. La popolazione urbana, che si stima in alcuni siti abbia raggiunto le 30.000 unità, si dedicava all’artigianato ed al commercio [1]; nelle aree rurali si coltivava grano, cotone, sesamo e piselli, e si allevavano animali, tra cui il bufalo ed il cavallo. Gli harappiani ebbero anche una discreta attività artistica, rivelata nelle ceramiche, nelle statuine antropomorfe o di animali, fatte di metallo o terracotta, oppure scolpite nell’avorio, nei gioielli in oro ed argento, in vari manufatti di rame o di bronzo. Elaborarono uno dei primi sistemi di scrittura dell’umanità, composta da circa 450 simboli ideografici, e che a causa della frammentarietà dei reperti pervenutici, non è ancora stata decifrata.
 
Sigillo di Moenhjo - Daro. National Museum, New Delhi


Proprio in seno a questa cultura arcaica, compaiono le prime raffigurazioni di alberi conosciute nel sub continente indiano, sotto forma di immagini, più o meno stilizzate, dipinte o incise su ceramica, oppure intagliate o scolpite su piccoli sigilli di steatite[2]. Se i motivi arborei delle ceramiche sembrano avere prevalentemente funzione decorativa, quelli che appaiono con una certa frequenza sui sigilli (anche se in minor misura rispetto alle figure di animali) sono stati interpretati come simboli della diffusione di un culto degli alberi, autonomo, oppure collegato a quello della Dea Madre.[3] A differenza delle ceramiche, ritrovate sia nei siti urbani, che in quelli rurali e funerari, i sigilli compaiono solo nelle grandi città di Moenhjo-daro, Harappa e Chanhu-daro: piatti e sottili, di forma prevalentemente quadrata, ma anche rettangolare, con i lati di pochi centimetri, e lavorati talora su ambedue le facce, una volta scolpiti venivano cotti al fuoco per indurirne la superficie. Gli archeologi ne hanno reperiti circa duemila pezzi. Alcuni di essi portano iscrizioni il cui significato resta avvolto nel mistero di una lingua a noi sconosciuta. Anche l’uso pratico dei sigilli è incerto: si presume fossero utilizzati in ambito commerciale, in pratica come una sorta di timbro di identificazione delle merci, ed in questa ottica le scritte identificherebbero delle persone reali. Altri manufatti, di steatite ma anche di ceramica, a forma di placca rettangolare, erano probabilmente impiegati come amuleti.
Gli alberi vi sono rappresentati nella loro interezza, o simboleggiati da rami arcuati coperti di foglie; le forme sono semplici, ridotte all’essenza ma verosimili, di affascinante impatto artistico. Rami ed alberi possono essere soli od accompagnati da animali, oppure incorniciare una figura divina antropomorfa, che fa spesso parte di una scena più complessa. L’importanza di questi reperti per lo studio della dendrolatria in India, è accresciuta dal fatto che  nel periodo vedico alle numerose citazioni di alberi nelle scritture sacre, non corrisponde alcuna rappresentazione plastica e pittorica, ed occorrerà attendere diversi secoli prima che la raffinata arte indiana ne produca di altre [4].
Ma cosa è raffigurato in questi sigilli, e quale significato è stato loro attribuito? Per cercare di chiarire questi punti, conviene analizzare più nel dettaglio alcuni di essi. Anzitutto è opportuno premettere che in mancanza di documenti scritti decifrati, le varie ipotesi elaborate a proposito della religione e degli alberi sacri dell’Indo, si basano sulla comparazione con i reperti archeologici provenienti da civiltà contemporanee, quali quelle mesopotamiche, di Elam e di Creta, comparazioni che restano comunque a livello di ipotesi. 

Cominceremo quindi da due sigilli provenienti da Harappa. Entrambi raffigurano semplici profili di alberi: una pietra sembra circondare la base del fusto di uno dei due, mentre l’altro è racchiuso da una specie di balaustra, formata da montanti di legno con le estremità collegate. Le immagini appaiono assai interessanti, in quanto chiari prototipi di quell’ albero-tempio, luogo sacro naturale, che il fervore religioso indiano renderà popolare sia nell’induismo, con il nome di Caitya, che nel buddismo, dove fu chiamato Mandapa.[5] 
Una breve citazione merita anche il sigillo riprodotto nella fotografia anteriore, non fosse altro perché è l’unico sigillo arboreo rimasto in India, conservato nel National Museum di Delhi.[6] Scoperto a Moenhjodaro, si tratta probabilmente di un’insegna familiare, e raffigura un’asta centrale con due teste di unicorno unite per il collo, poste simmetricamente ai due lati dell’asta, e sormontate da un mazzo con otto foglie di Peepal. Secondo Marshall questo motivo testimonierebbe la presenza di un culto dell’albero associato a quello di un animale, un bovino, ma la mancanza di elementi comparativi nelle culture sopra citate solleva diversi dubbi su questa interpretazione.
Assai più elaborata è la scena che appare su uno dei reperti più famosi dell’Indo, conosciuto come sigillo 430, proveniente anche esso da Moenhjodaro, ed oggi esposto al museo di Islamabad. Esso mostra nella sua parte superiore una figura femminile nuda, con il capo coperto di corna, e con diversi braccialetti alle braccia, in piedi tra due rami di Peepal disposti a lira. Accanto a lei compare un’altra figura femminile semi inginocchiata, con la testa adornata da un ramo di Peepal, e seguita da un gigantesco caprone dalle corna affilate e divergenti; nella parte inferiore, infine, sono raffigurate sette persone con i capelli raccolti in una lunga treccia. Vari ideogrammi si trovano inframezzati tra le figure. Per Marshall, che descrisse e studiò a lungo la scena, sarebbe questa la rappresentazione di un culto dell’albero, in cui la prima figura descritta è la Dea dell’albero, manifestatasi fuori di esso ad una sacerdotessa che le rende omaggio insieme ad alcuni devoti.

Sigillo 430 di Moenhjo - Daro. Islamabad Museum
Dall’immagine emergono i pesanti copricapo che adornano la divinità e la sua sacerdotessa: non è ben chiaro se si tratta di corna o di elementi vegetali, stilizzati in volute che si arrotolano verso l’alto: in tutti e due i casi, comunque, sono insegna della divinità, analogamente a quanto osservato nella Mesopotamia arcaica, al riguardo di altre divinità collegate al culto dell’albero.
L’ essenza divina dell’albero che si manifesta ai devoti in adorazione è un motivo ricorrente in alcuni sigilli dell’Indo, ed è un elemento ignorato nel periodo vedico, ma che riemergerà più tardi sia nell’induismo che nel buddismo e nel jainismo.
Alcuni sigilli ed amuleti riportano ancora episodi rituali considerati in stretto rapporto con il culto della Dea Madre, la cui diffusione nella civiltà di Harappa sarebbe testimoniata dal ritrovamento di numerose statuine femminili che la rappresentano. Uno di essi mostra su di una faccia una figura femminile seduta a terra, che sembra proteggersi da un uomo armato; sull’altra faccia appaiono invece due geni zoomorfi ed una donna sdraiata, con la testa in basso e le gambe divaricate, nell’atto di partorire un albero, che fuoriesce in parte dal suo ventre. Fu ancora Marshall che per primo vide in questa scena una rappresentazione della Dea Madre e dei suoi devoti, una tesi, questa, ripresa e sviluppata anche da altri autori [7]. Picard ha ipotizzato invece che quella qui raffigurata sia una messa a morte rituale all’interno di un culto agrario della fertilità [8]. Per la Viennot [9], infine, la figura di donna che genera l’albero è un’immagine brutalmente esplicita delle credenze cosmogoniche dell’India antica, in cui il regno vegetale era il simbolo di tutta la fecondità della terra.
A conclusione della nostra breve panoramica, ci occuperemo infine di un reperto di Moenhjo-Daro, questa volta una piccola placca rettangolare di ceramica. Sulla destra della placca, si vedono due figure che portano ciascuna un albero con le radici ben visibili, ed un terzo personaggio, posto tra i primi due, che allarga le sue braccia, coperte di rami. Sulla parte sinistra, si osserva invece un albero con le foglie (identificate come foglie di Neem[10]) sui cui rami sta seduta un’altra persona che rivolge le sue braccia verso un felino, il quale a sua volta volge la testa nella sua direzione. Secondo Mackay (vedi nota 10) sarebbe qui riprodotto un matrimonio di alberi, che due devoti stanno per realizzare sotto la protezione della dea; oppure potrebbe trattarsi di un rito di liberazione della divinità dell’albero. Viennot mette in relazione questa scena con i riti di passaggio della cultura egea, riguardanti lo sradicamento invernale dell’albero sacro, di cui veniva conservato un ramo da ripiantarsi a primavera, per festeggiare il ritorno della vita e della Dea Madre. La parte sinistra della placca, testimonierebbe ancora l’ associazione sacra tra albero, Dea Madre ed animali.
La fertilità sarà una delle principali figure simboliche incarnate dall’albero sacro nel corso di tutta la storia dell’India, figura che giungerà con immutata potenza fino ai nostri giorni. Se la terra è un principio creativo potenziale, è attraverso gli alberi che questo potere si manifesta immutato nel tempo, autonomo, spontaneo, emblema di un’essenza divina che generosamente dona agli uomini i frutti, anno dopo anno. Una situazione ben diversa da quella delle piante coltivate ed anche dell’allevamento, che richiedono tanta fatica da parte dell’uomo, e permangono sotto l’alea della variabilità climatica e delle avversità parassitarie.
Per quanto riguarda le specie arboree raffigurate nelle ceramiche e nei sigilli, esse non sono molte, tre o quattro, e tra esse l’unica riconoscibile con certezza è il Peepal, il fico che nelle grandi religioni indiane avrà il posto più in alto nel “Pantheon” degli Alberi sacri, tanto da divenire uno degli alberi più amati e venerati dell’India. Sulle ragioni della preminenza del Peepal si sono fatte diverse ipotesi, di cui riparleremo in seguito. Annoverare tra le cause della sua fama anche la facile riconoscibilità (le sue foglie di forma triangolare, dal lungo picciolo e dalla lunga punta acuminata, sono inconfondibili) appare una suggestione tutt’altro che pellegrina. Per le altre specie, l’identificazione appare meno certa: si hanno alberi con foglie bipennate, del tipo Acacia, in talune figure identificabili con il Khadira, ed altri con foglie a pettine, che potrebbero rappresentare sia il Neem, che una Palma, magari il Kharjura, ovvero la Palma da datteri, che era coltivata dagli harappiani.

Dopo l’anno 2.000 a.C. la Civiltà dell’Indo entra in una fase di lento declino, che tra il 1.800 ed il 1.500 a.C. porta all’abbandono delle città, praticamente trasformate in villaggi, ed alla emigrazione di gran parte della popolazione verso est, verso le pianure gangetiche. Le cause della fine di questa civiltà sono ancora sconosciute: si parla di ripetute inondazioni, di cambiamenti climatici, di un possibile terremoto che sconvolse l’assetto dei territori, in particolare con la scomparsa del fiume Saraswati, dell’ arrivo delle popolazioni ariane, che, in differenti ondate, si compie verso la fine del periodo della decadenza. Gli scavi archeologici non evidenziano segni di guerre o di distruzioni intervenute durante tutto il lungo periodo di esistenza di questa civiltà, con l’eccezione di alcune città,ad esempio Moenhjodaro, in cui emergono i segni di un massacro finale. Gli storici hanno con il tempo scartato molte delle ipotesi proposte, non riconoscendo a nessuna di essa importanza fondamentale per la scomparsa. Comunque sia, questa civiltà con le sue splendide città resterà completamente dimenticata fino alla sua riscoperta agli inizi del ventesimo secolo.

Sacro Peepal (Ficus Religiosa). Khadiri, India
Il contributo che la cultura di Harappa darà allo sviluppo del corpus religioso dell’Induismo è tutt’altro che marginale, come hanno osservato numerosi studiosi a partire da Marshall: lo stesso culto degli alberi, la Dea Madre, il Dio itifallico in posizione yoga rappresentato in alcune statuine, ed assimilato a Shiva, il valore rituale del serpente e del lingam (la pietra a forma di fallo che rappresenta Shiva), la svastica ed altri elementi ancora, conservati e veicolati dagli strati sociali popolari rimasti al margine della religione vedica, saranno lentamente assorbiti nel mare magnum dell’induismo.   




[1] Manufatti provenienti dalla valle dell’Indo sono stati ritrovati durante gli scavi di alcune città babilonesi.

[2] La steatite, conosciuta anche come saponite, è una pietra porosa facilmente lavorabile, ma al tempo stesso resistente e durevole.

[3] Sir John Marshall, archeologo e direttore dell’Archeological Survey of India all’epoca delle scoperte e degli scavi iniziali di Moenhjodaro ed Harappa, fu il primo a sottolineare la presenza e l’importanza del culto dell’albero nella civiltà dell’Indo. Il suo libro “Mohenjo-daro and the Indus Culture”, pubblicato nel 1931, resta un testo fondamentale per la conoscenza di questa cultura.

[4] Le successive raffigurazioni arboree conosciute in India sono quelle effigiate su alcune monete di argento del sesto secolo a.C.

[5]La pietra-altare e la recinzione posti alla base dell’albero, hanno evidenti analogie con le strutture che accompagnano l’albero sacro nella civiltà minoica a Creta, mentre mancano nelle rappresentazioni mesopotamiche ed iraniane, segnalandosi quindi come una creazione piuttosto originale della cultura harappiana.

[6] Gli altri sigilli sono sparsi in vari musei. Il British Museum di Londra ne possiede una discreta collezione.

[7] Jean Przyluski, “La Grande Dèesse

[8] Charles Picard, “D’un sceau d’Harappa a l’anneau d’or de Tirynthe

[9] Odette Viennot, “Le Culte de l’Arbre dans l’Inde Ancienne


[10] E’ questa l’ipotesi di Ernest Mackay, archeologo americano che partecipò agli scavi di Moenhjo-Daro degli anni trenta, e che si occupò a lungo della placca che stiamo descrivendo.

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