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mercoledì 29 gennaio 2014

I Grandi Banyan dell'India


Il fiume Narmada. Sullo sfondo, nella metà destra, la chioma di Kabir Vad. Bharuch, Gujarat.


“Ho cercato un uomo corrotto, ma non ne ho trovato alcuno. Allora ho cercato dentro me, e l’ho trovato nel mio io” (Kabir Das)

Quello che segue è un resoconto parziale del viaggio che ho fatto in India per le recenti vacanze natalizie, in buona parte dedicato alla ricerca dei grandi Banyan del Paese. I quattro Alberi da me scelti sono disseminati per mezza India, talvolta poco conosciuti fuori dalle loro zone, faticosi da raggiungere, e non sono che una parte di quelli che varrebbe la pena conoscere. 
(Per le caratteristiche generali del Banyan, vedi Post Alberi Sacri dell’India: ilBanyan, Albero dei Desideri)

Il primo grande Banyan abita ad una trentina di chilometri da Bangalore, e da questa città comincia il mio viaggio. Bangalore si trova nel sud dell’India, conta quasi tre milioni di abitanti, e da tempo si è costituita come polo informatico del Paese. Qui si concentra buona parte del terziario avanzato dell’India, ed anche molti call center internazionali, delocalizzati quaggiù dai paesi ricchi del mondo. L’aeroporto è nuovissimo, ancora in fase di ultimazione, c’è una autostrada a sei corsie che conduce in centro, gli shuttles sono autobus Volvo nuovi di pacca. La città intera è un cantiere a cielo aperto: si sta costruendo la metropolitana sopraelevata, ed i palazzi nuovi, di foggia occidentale, spuntano come funghi. La zona centrale è completamente sventrata: oltre alla metropolitana, è prevista la realizzazione della nuova stazione degli autobus. Il traffico è insostenibile a qualunque ora, il caos è indescrivibile. La città è oramai al collasso ecologico: l’inquinamento da gas di scarico costringe i poliziotti che dirigono, si fa per dire, il traffico, ad indossare mascherine protettive, che rendono incomprensibile il loro continuo vociare. Quei densi fumi grigi in una giornata mi provocano il mal di gola.  Montagnole di plastica varia giacciono ai lati delle strade, in attesa di essere bruciate la notte. L’innata propensione indiana all’anarchia, si è qui tramutata in un parossismo acustico di clacson e motori sfiniti, che mette a dura prova qualunque pazienza. La storia si ripeterà non solo nelle grandi città che dovrò attraversare per raggiungere i miei alberi, ma anche nei centri minori, città da cinquantamila abitanti, che solo venti anni fa sarebbero state delle oasi di tranquillità.

 
Dodda Aladamara. Kethohalli, Bangalore. Karnataka
La mattina mi avvio alle prime luci del giorno. L’autorisciò che avevo strenuamente contrattato la sera prima non si presenta; ne prendo uno al volo, il cui autista non conosce la strada, e si fermerà quindi diverse volte per chiederla. A quest’ora c’è poco traffico. Mi sfilano davanti un paio di Mc Donald (!), un grande centro commerciale multipiano, una palestra con un enorme cartellone davanti che dice “State in forma! Accesso consentito anche senza carta d’identità” (!!). La città termina gradualmente, sostituita dal verde di densi alberi dalla chioma allargata. E’ il primo Banyan di questa fatta che vado a visitare, sono quanto meno incuriosito: secondo le guide, si dovrebbe trovare nel villaggio di Kengeri, in realtà è a qualche chilometro dal villaggio, a Kethohalli, poco più di un gruppo di case lungo una strada secondaria, comunque vicino a Kengeri. In lingua Kanara si chiama Dodda Alada Mara, semplicemente “il grande albero di Banyan”, ed è uno degli otto Banyan dell’India che si contendono storicamente la palma di più grande della nazione. L’Albero è recintato con un muretto, sormontato da una ringhiera in ferro battuto; la recinzione circonda l’intero perimetro della chioma, e costeggia in parte la strada, dove si apre un piccolo arco che ne costituisce l'ingresso. Appena entrati, agli occhi si presenta un paesaggio da fiaba, disegnato dagli innumerevoli tronchi argentati che si dipartono in tutte le direzioni, diritti verso l’alto alcuni, inclinati e contorti altri, in orizzontale a sfidare le leggi della gravità altri ancora; taluni di essi strisciano al suolo come serpenti, vi si immergono poi, per riemergerne a poca distanza. Si avverte subito una energia possente, una magia verde che permea tutto il luogo, trasportata dalla linfa nei suoi lunghi e tortuosi percorsi. I fusti, confusi con i rami, si incontrano, si incrociano, si attorcigliano su se stessi, si restringono e si allargano, ad originare forme incredibili ed improbabili. Fasci di giovani radici aeree penzolano dai rami, a varie altezze, sottili filamenti aggrovigliati tra loro. Vecchie radici aeree oramai ben radicate si dispongono in serie ordinate come lucide canne d’organo, o formano agili cortine intorno ai fusti più grandi. La prima sensazione è quella di trovarsi in un bosco incantato, non davanti ad un albero magico. Risulta difficile credere che tutta quella enorme massa di vegetazione sia un solo albero, che tutti quei fusti derivino dal secolare processo di crescita di un solo organismo. Ed invece è proprio così. Il Banyan ha un curioso modo di vegetare, proprio anche di altre specie del genere Ficus, ma comunque assai raro in Natura. Dai rami degli individui adulti, si originano in continuazione radici aree, le quali, una volta raggiunto il suolo, vi penetrano e costituiscono un proprio sistema radicale. Con il tempo, la radice aerea assume l’aspetto e la funzione di un nuovo fusto, che può concrescere ed annodarsi con il ramo che lo ha generato oppure, in seguito a rotture accidentali, rendersi autonomo e costituire un “nuovo” individuo. Lentamente, si formano centinaia di nuovi fusti, anche migliaia negli individui plurisecolari, ed il Banyan si trasforma in un piccolo bosco.

Dodda Aladamara. Kethohalli, Bangalore. Karnataka

Il luogo è ben tenuto, molto pulito ed ordinato, con dei vialetti delimitati da basse siepi di arbusti che si snodano “dentro” l’albero, piazzuole con panchine, e dei ridicoli cestini a forma di pinguino multicolore, in perfetto stile new-kitch indiano. Quasi in posizione centrale, c’è un piccolo tempietto dedicato a Shiva, costruito accanto a quello che fu il fusto originario di Dodda Alada Mara, caduto nel 2000 a seguito di una violenta tempesta, come mi spiega il bramino titolare del tempio, indicandomi la posizione esatta dove si trovava. Dodda ha l’aria di essere piuttosto visitato, a giudicare dai numerosi chiai shop e dalle bancarelle che vendono frutta dall’altro lato della strada, ed infatti più tardi arriverà una chiassosa scolaresca, ed altri visitatori. C’è un allegro volare di uccelli che cantano rincorrendosi nella immensa chioma dell’albero. Ed anche diverse scimmie, alcune a spenzolarsi dai rami, un gruppo intente a frugare nei mucchi di fiori provenienti dalle offerte al tempio. Tre di loro, vagliano minuziosamente i residui organici che si accumulano nei cilindri di lamiera messi dai giardinieri a proteggere le radici in fase di radicazione.  Dal lato opposto del recinto, c’è una baruffa in corso tra cani e scimmie, che si contendono del cibo, i primi ad abbaiare furiosamente, le seconde fuori portata, sulla rete, a sgranocchiare beffardamente il cibo sottratto. Esco fuori, da una immancabile apertura della rete, per cercare di fotografare l’albero da lontano. Ma, come accadrà anche per gli altri Banyan, è troppo grande per entrare nell’obiettivo. Da lontano il profilo della chioma disegna nel cielo un arco perfetto, che dal punto centrale degrada simmetricamente fino a poca distanza dal suolo. E’ veramente enorme. Il cartello posto di lato all’entrata dice che la chioma copre un’area di 3 acri, ovvero di circa 12.100 metri quadrati, con una “circonferenza” di 120 metri (Come spesso capita da queste parti, l’errore è pacchiano, in quanto questa è la misura del diametro! La circonferenza della chioma è in realtà di oltre 400 metri). In altezza raggiunge i 30 metri, e gli sono attribuiti dai 350 ai 400 anni di età; è al sesto posto, tra i Banyan più grandi dell’India, considerando la superficie della chioma. Tra quelli che visiterò, forse anche perché è stato il primo, Dodda Alada Mara mi è apparso come il più spettacolare, per densità di fusti e radici aeree, per compattezza e vigore, per le fantastiche forme che offre alla vista.

Dodda Aladamara. Scimmie al lavoro

Il giorno successivo, il mio Banyan Tour mi porta a Kadiri, una piccola cittadina nello stato dell’Andhra Pradesh, un centocinquanta km a nord di Bangalore. Una volta trovato l’autobus, dopo un lungo vagare tra i lavori in corso, accodato ad un gruppo di indiani perplesso quanto me, il viaggio scorre tranquillo e comodo. Kadiri, invece, è tutt’altro che tranquilla, a dispetto delle ridotte dimensioni che sembra avere. La strada nazionale la attraversa tutta, facendoci anche due o tre belle curve a gomito, e c’è un traffico infernale, con la variante, rispetto a Bangalore, che ci transitano anche i mezzi pesanti. Per starsene in santa pace, non resta che rifugiarsi nel Tempio, situato nel bel mezzo della città. Dedicato a Lakshmi Narasimha Swamy, il dio avatar di Vishnu, metà uomo e metà leone, è uno dei templi più importanti dell’India del sud, meta di continuo pellegrinaggio. Il Tempio principale, insieme ad altri tempietti ed agli spazi per i pellegrini, è all'interno di un'area quadrangolare delimitata da un alto muro; a metà di ogni lato si innalza un gopuram, un'alta torre piramidale, ricoperta di statue dipinte a colori vivaci, e dove si aprono le porte di accesso. Nel cortile vive uno splendido esemplare di Peepal, la cui chioma va ad abbracciare un albero di Jammu (Prosopis cineraria), sacro a Narasimha, mi dice un anziano pellegrino. Ai piedi dei due alberi si sprecano le pietre scolpite con coppie di cobra attorcigliati, antichissimo simbolo di fecondità.

Thimmamma Marrimanu. Kadiri, Andhra Pradesh

La notte non c’è verso di dormire. L’albergo è invaso da una comitiva di soli uomini, che passano la notte a bere wiskhy locale, rendendosi presto ubriachi ed insopportabili, tra urla, pianti e litigi. Alle cinque, sfinito, scendo per strada e mi vado a bere un chiai, aspettando l'alba. Me lo servono in un bicchierino di plastica mignon, che il calore fa presto accartocciare, e scotta le mani. Ricordo con nostalgia i primi viaggi in India, quando il chiai (ma anche lo yogurt ed altre cose) ti veniva dato in dei rustici contenitori di terracotta, che dopo l’uso si spaccavano in terra, con grande soddisfazione, superato l’imbarazzo delle prime volte. E tutto tornava alla Madre Terra, senza inquinare. Il concetto è rimasto lo stesso, nella mente indiana; sono i materiali, purtroppo, ad essere cambiati. Appena rischiara, fermo il primo autorisciò che passa e chiedo al driver di portarmi nel posto dove vive Thimmamma Marrimanu, il Banyan più grande di tutta l’India, ovvero, se come parametro di confronto prendiamo l’ampiezza della chioma, l’albero più grande della Terra. Caratteristica che dal 1989 appare anche nel Guinness dei primati, come orgogliosamente sottolineano alcune scritte pubblicitarie sui muri di Kadiri. La città termina presto, bruscamente, il confine con la campagna è netto. Entro in un altro mondo, l’India che ancora amo, l’India rurale dai ritmi lenti e dalle persone tranquille e gentili. La strada è costeggiata da due filari di alberi giganteschi, ed ai suoi lati luccica l’acqua dei campi sommersi dove sta crescendo il giovane riso. Basse curiose montagne si levano isolate od in minuscole catene. Hanno l'ossatura di granito, che emerge qua e là dalla terra rossastra e secca con immensi macigni sovrapposti, spesso con rocce più piccole intercalate, in equilibri strampalati, tanto secolari quanto precari; sulle sommità, si intravedono templi e statue di Shiva. Ci vuole un oretta buona per arrivare. Thimmamma è immerso in un ampio fondovalle, vicino ad un piccolo gruppo di case; per entrare si pagano cinque rupie anche se, bontà loro, vorrebbero farmi pagare pure i biglietti della famigliola che arriva insieme a me. Il Banyan è recintato non solo lungo il perimetro esterno, ma anche al suo interno: in pratica è consentito l’accesso solo al tempio che si trova nel mezzo dell'area occupata dall'albero. La chiusura si è resa necessaria a fini protettivi: negli anni ’50 il passaggio di un ciclone atterrò circa il 40% dei fusti, e da allora la vegetazione è in fase di lenta ricostituzione. Il notevole afflusso di visitatori ne disturbava il recupero, sia per il compattamento del terreno (ostacolo alla penetrazione nel suolo delle radici aeree, ed alla infiltrazione dell’acqua piovana), che per la distruzione delle radici aeree e per la rimozione di intere piantine, portate via dai turisti come souvenirs.

Thimmamma Marrimanu. Kadiri, Andhra Predesh
Il Banyan sarebbe stato piantato agli inizi del 1400 (ed avrebbe quindi circa 600 anni di età) da una donna di nome Sri Sathi Thimmamma. Essa era di famiglia reale, ed andò in sposa al re Bala Veeranayaka, insieme al quale governò con giustizia e benevolenza. Alla morte del marito si immolò sulla stessa pira, secondo l'antichissima pratica del sati. (Il sati fu una usanza atroce, che vedeva le vedove bruciare vive insieme al marito, talora consenzienti, ma più spesso costrette dai familiari; proibita solo nel 1800, è comunque continuata a lungo, con il beneplacito degli inglesi). Prima di salire sul rogo, piantò sul lato nord est della pira questo Banyan che porta il suo nome. Thimmamma è considerata un esempio di amore e virtù, ed ancora oggi molte coppie si rivolgono a lei, in questo luogo, per chiedere la benedizione di un figlio. Anche il Tempio è dedicato a lei; dal 1950, nella riccorenza di Shivaratri, qui si tiene una festa religiosa a cui concorrono moltissimi devoti. Dell’albero e delle sue forme non si vede granché, grazie alla recinzione: rispetto a Dodda sembra più rado, con meno radici aeree; alcuni tronchi spaccati giacciono al suolo. Ma l’atmosfera è potente: un energia austera, severa, puramente silvestre. Nella chioma al posto delle scimmie giocherellone volano i saggi corvi ed i leggiadri pappagallini. All’esterno, poco lontano dal Banyan, un piccolo e semplice vivaio forestale alleva i suoi figli, insieme a quelli di altri alberi del posto. 
La chioma di Thimmamma Marrimanu ha una estensione spaventosa, coprendo un’ area di circa 19.000 metri quadrati, al netto dei vuoti più ampi, con un perimetro di 560 metri ed un diametro variabile tra 135 e 182 metri.

Thimmamma Marrimanu. Offerte votive appese alle radici aeree
Il Tempio di Sri Thimmamamba.Thimmamma Marrimanu. Kadiri, Andhra Predesh
Sulla via del ritorno, il rischio wala, un ragazzo magro e simpatico, mi porta a visitare il samadhi di Vemana, che fu un poeta di lingua telegu del 1800, famoso per avere messo alla berlina l'ipocrisia dei costumi della propria epoca (?!?). Lo spettacolo è stupefacente. Sopra la vecchia tomba è stata costruita qualche anno fa una piramide avveniristica in simil vetro. Intorno alla tomba è stato innalzato un ampio porticato: le lapidi nere appese alle pareti, con incisi i versi del poeta, danno al tutto un aspetto simile ai memoriali di guerra.
 
All’indomani, dopo un’altra insonne causa ubriachi molesti, cambio programma e, visto che sono ad una trentina di km di distanza, me ne vado a Puttaparthi, luogo dove è nato ed ha fondato il proprio ashram Sai Baba, uno degli ultimi santi indiani. Il posto è pieno di occidentali di ogni nazionalità, con conseguenti negozietti di souvenir, ristoranti, internet, cambi ed affini, ma in definitiva è abbastanza shanti. L’ashram è impressionante, sia per grandezza che per organizzazione, pieno di alberi e di aree verdi. La hall centrale, dove si trova il samadhi di Sai Baba, è immensa e si piena all’inverosimile di devoti nelle ore dei canti, al mattino ed al tramonto. Si mangia con 10 rupie, come dire, quasi a gratis, e questo mi sembra un ottimo segno. Nel refettorio saremo 200, solo uomini, perché si mangia divisi, ed il mio non è che uno dei tanti turni ad essere serviti. Un magazzino a tre piani vende prodotti di ogni tipo, dai tessuti ai saponi agli alimentari, a prezzi molto bassi. Nel complesso ho un’impressione positiva, e mi pento di non esserci venuto quando Sai Baba era ancora in vita. Nel pomeriggio vado a visitare il Kalpavriksha, l’albero dei desideri. E’ una pianta di Imli (Tamarindo; Tamarindus indica). Cresce accanto ad una roccia, in cima ad una scalinata da 150 scalini, che mette a dura prova le opulente matrone indiane che salgono lentamente ed ansimanti, sollevando i lunghi sari. Alla rete che lo circonda sono appesi bigliettini arrotolati dove i pellegrini scrivono i loro desideri, accompagnandoli con offerte di fiori ed incensi.
Pillalamarri. Mahabubnagar, Andhra Pradesh
Pillalamarri, “Il Banyan con figli” in lingua Telegu, è segnalato sui depliant dell’Ufficio turistico dell’Andhra Pradesh come il posto più interessante da vedere a Mahabubnagar, una robusta cittadina sulla via di Hyderabad. Da Puttaparthi sono più di dieci ore di autobus locale: un finestrino mancante e gli altri vetri che entrano presto in risonanza, rendono il viaggio freddo e stancante. Pillalamarri è a qualche chilometro di distanza dalla città, in una sorta di parco ricreativo extraurbano, al cui interno si trovano anche un piccolo zoo, che non ho il tempo ed il coraggio di visitare, un ristorante che prepara ottimi pakora, ed un museo archeologico, costituito da due stanze con pochi reperti conservati in teche di vetro appannate dalle ditate dei visitatori, e da un’area all’aperto con diverse statue in pietra, disposte alla rinfusa. E’ il primo pomeriggio di una giornata radiosa quando arrivo; il cielo è azzurro carico,  raggi di sole filtrano dagli ampi vuoti della chioma, e vanno a risaltare particolari dei fusti. L’aria è festosa, complice il sole, una gita scolastica di bambini che ovviamente mi circonda a caccia di fotografie, alcune innocenti coppie appartate ed un numeroso gruppo di giovani donne sedute a mangiare. Tra i Banyan visitati nel viaggio, è quello che mi è apparso come il più “solare”. Pillalamarri si presenta con una densità di fusti assai minore rispetto ai due precedenti, ed al suo interno, in particolare nella porzione ad est, ci sono delle radure anche estese. Ma i suoi tronchi sono imponenti ed assumono forme intriganti, correndo spesso paralleli al suolo, a poca distanza, creando archi con volute che si alternano tra terra e cielo. Il primo fusto, a cui sono attribuiti dai 600 ai 700 anni è ben evidente ed ha dimensioni gigantesche: si compone di numerosi fusti derivanti da radici aeree, che si sono sovrapposti a quello originario. Decentrato verso ovest, è circondato da una pedana rialzata a forma di foglia, ed a ridosso di esso si trova la tomba di un santo musulmano, di cui non c’ è stato verso di conoscere il nome. Dentro l’area occupata dall’albero scorre un piacevole percorso di vialetti pavimentati; i variegati cestini per i rifiuti, a forma di orso, di coniglio, ed addirittura con il profilo di Donald Duck, fanno impallidire perfino i pinguini di Dodda!

Pillalamarri. Il fusto originario. Mahabubnagar, Andhra Pradesh
Pillalamarri è classificato al quinto posto tra i Banyan con la chioma più estesa dell’India, subito prima di Dodda Alada Mara. Sebbene depliant e guide varie attribuiscano ai due la stessa copertura di 3 acri, in realtà Pillalamarri è leggermente più grande, con superficie di insidenza della chioma, al netto delle chiarie più estese, di circa 12.500 metri quadrati; il perimetro si attesta sui 460 metri, ed il diametro varia tra 120 e 150 metri.

Pillalamarri. Mahabubnagar, Andhra Pradesh
La sera stessa proseguo per Hyderabad, poiché il giorno successivo, ultimo del 2013, ho l’aereo per Baroda. Sono due ore di autobus deluxe, di cui una buona nel mezzo dell’infernale traffico di una città che mi dicono vada oramai per i dieci milioni di abitanti. Appena scendo alla stazione centrale, mi accoglie un cartello “Benvenuti nella bus station più grande del mondo!”. In effetti. Mi ci vorrà quasi mezzora per uscirne, in mezzo ad un caos di passeggeri, venditori di chiai e pakora, giornalai, perdigiorno, autobus che arrivano e partono, sempre a trombe spiegate. Fuori dalla stazione, incredibilmente, nulla ed oscurità. Ma il casino ricomincia ben presto, appena attraversata questa striscia di terra di nessuno che nel buio non riesco a capire cosa sia. E’ tardi, mi fermo nel primo hotel sulla via, il classico pessimo e costoso hotel indiano, con stanza sulla strada. Perlomeno, la mattina comincia in allegria. Sveglia alle tre e mezzo, scendo e mi avvicino all’autista del taxi che mi ha fissato l’albergo. Ha dormito in macchina, a scanso di equivoci. Ci avviamo verso l’aeroporto, in una città deserta, attraversando la parte vecchia, che mi appare anche bella con i suoi palazzi variegati, immersi in una luce nebbiosa. Abbiamo appena oltrepassato il Charminar, che è il monumento più famoso di Hyderabad, quando il cellulare del tassista suona. E’ il cliente della stanza 103 (io avevo la 113), che aveva fissato quel taxi, è rimasto a piedi, ed urla come un ossesso. Mi scappa da ridere. La situazione si risolve comunque con un giro di telefonate che, vista l’ora, fanno incavolare diverse persone, e con l'invio di un altro taxi. Il mio volo fa scalo a Bombay: arrivando, proprio nei pressi dell’aeroporto si perdono a vista d’occhio i tetti di lamiera, così caldi d’estate e così freddi d’inverno, dei tristemente famosi slums. Ripartendo, osservo con tristezza il mare, dal colore indescrivibile dell’acqua morente. Baroda, che oggi si chiama con l’antico nome di Vadodara, è la capitale culturale del Gujarat, la tozza penisola all’ estremità occidentale dell’India, la zona più industrializzata del paese. Non mi fermo e proseguo in autobus per Bharuch. Qua non passano molti stranieri, anzi siamo piuttosto rari, e me ne accorgo in albergo, dove il portiere impazzisce nella gestione del mio passaporto e del mio visto. Sul primo non c’è la residenza, come è sempre stato, sul secondo non appare il timbro dell’Ambasciata che lo ha rilasciato, semplicemente perché ora non lo mettono più. Ogni volta che gli passo davanti mi ferma per chiarimenti; telefona tre volte alla polizia, e mi fa firmare nove volte (!?!) lo stesso foglio, aggiornato di ora in ora. La cosa mi preoccupa un po’, non si sa mai cosa può succedere, in India. L’ultimo assalto sarà il giorno dopo, al momento del check out, e mi sentirò sicuro solo una volta montato in treno.

Kabir Vad. Bharuch, Gujarat

Il quarto grande Banyan del mio viaggio, Kabir Vad, ovvero “Albero di Kabir”, vive su di una isoletta nel mezzo del Narmada, uno dei sette fiumi sacri dell’India, a circa 18 km da Bharuch. Kabir Vad è uno degli alberi più conosciuti dell’India, e la sua fama è seconda solo al Banyan del Giardino Botanico di Calcutta, che peraltro, nella classifica dell’estensione della chioma, è solamente quarto (dopo Thimmamma Marrimanu, Kabir Vad per l’appunto, ed il Banyan Gigante di Majhi, a Lucknow). L’albero porta il nome di Kabir Das, santo del XV secolo: una tradizione popolare lo ritiene nato da un ramoscello gettato al suolo dal santo, dopo che lo aveva usato per lavarsi i denti. Un’altra storia racconta di due fratelli che, dopo avere lavato i piedi del maestro, avevano gettato l’acqua su di un albero secco, vedendolo miracolosamente riprendere vegetazione: quell’albero sarebbe l’attuale Banyan. Kabir Das è stato una figura eccezionale nello sconfinato panorama della spiritualità indiana: nato intorno al 1398, fu abbandonato subito dopo la nascita. Ritrovato da una coppia musulmana  su una foglia di loto in un lago nei dintorni di Varanasi, venne da loro adottato e cresciuto secondo i principi della propria religione. Nonostante ciò, il giovane Kabir, deciso ad intraprendere una vita spirituale, riuscì a farsi accettare come discepolo da un guru di fede induista. Per lui non esisteva che un unico dio, e le religioni non erano che vie differenti per raggiungerlo: credeva con fermezza nell’eguaglianza di ogni uomo di fronte a dio, indipendentemente dal credo, dalla casta, dalla sua ricchezza e dal colore della pelle. Un pensiero del genere era alquanto rivoluzionario per l’epoca (e tuttora, direi), tanto che Kabir si procurò diversi nemici, venne accusato di eresia e messo a morte. Kabir uscì illeso dai vari tentativi fatti per eseguire la condanna capitale, e venne perciò lasciato libero. Ben presto, cominciò ad essere considerato un santo, e frotte di pellegrini giungevano a lui da tutta l’India per ascoltare il suo messaggio. Coerente nella sua lotta contro la superstizione religiosa, oramai prossimo alla morte, decise di lasciare Varanasi (morire a Varanasi è considerato dagli indù come una via sicura per ottenere la liberazione) e di recarsi a Maghar, una città più a nord, dove morì. Colui che era solito dire “Io sono il figlio di Allah e di Ram (Ram è un dio degli indù),  è da sempre considerato un santo sia dagli induisti e dai musulmani, un raro esempio di unità interreligiosa.
Non c’è alcuna certezza che Kabir abbia effettivamente soggiornato nella zona, anzi è piuttosto improbabile. Comunque sia, la nascita del Banyan è fatta risalire alla sua epoca, ed avrebbe quindi circa 600 anni. Secondo una ulteriore leggenda, questo sarebbe addirittura lo stesso albero sotto cui si sarebbero accampati i 7.000 soldati dell’esercito di Alessandro Magno, più di 2.300 anni fa!

Kabir Vad

E’ il primo giorno del nuovo anno quando vado a vedere Kabir Vad, ma sembra un giorno come tutti gli altri. L’autorischiò fissato la sera prima si presenta puntuale alle sette. L’aria del mattino è fredda e pungente. L’autista è un uomo corpulento, che dimostra più dei trenta anni che dice di avere; molto loquace, mi tempesterà di domande sul mio paese e sulla mia vita lungo i tragitti di andata e di ritorno. E’ molto bravo ad evitare le profonde buche della stradina che abbiamo imboccato, dopo un breve tratto di autostrada. Ai lati, due filari continui di stupendi banyan, con la parte inferiore dei tronchi dipinta in arancione, forse per la visibilità dalla strada. (come se non si vedessero!). Nel piccolo villaggio di Mangaleshvar prendo il traghetto per l’isola, una piccola barca a motore dipinta d’arancione, e con una scintillante bandiera sempre arancione issata in cima ad un lungo bambù. La traversata dura 15 minuti. Il Narmada è una immensa massa di acqua tranquilla, d’altronde non siamo molto lontani dalla foce; il profilo della enorme chioma di Kabir Vad si intravede all’orizzonte, sfumata nella foschia mattutina. Sbarcato sull’isola, mi accolgono due cammelli, con tanto di nome tatuato sul collo, adibiti a trasporto turisti; sulla spiaggia alcuni chiai shop, ancora chiusi vista l’ora. Risalito l’argine, una lunga passerella in cemento conduce all’arco che fa da ingresso all’albero. Entrato, mi si rivela subito uno stato di abbandono che fa male al cuore. Tra i Banyan visitati, è l’unico senza recinzioni, ed infatti anche oggi ci sono diversi grossi bufali sdraiati a riposare. Il suolo appare molto compattato. Non ci sono neanche i tanto sbeffeggiati cestini, e la spazzatura, piena di plastiche, si accumula ovunque, frutto di un massiccio ed incontrollato afflusso turistico. Mancano anche i vialetti, c’è uno stradello in terra battuta che conduce alla parte centrale, dove sorge un Tempio ottagonale a forma di loto, ed una costruzione che dovrebbe ospitare un museo, ma di cui non trovo l’entrata. Il Tempio è dedicato a Kabir Das, e ne ospita una statua, fatto assai paradossale, se si pensa che il santo era contro ogni forma di idolatria; la sua costruzione, recente, ha comportato anche il taglio dell’albero su alcune centinaia di metri quadrati. Lungo l’accesso è pieno di bancarelle che stanno per aprire: c’è tutto, di particolare pregio una enorme tigre di peluche ed alcuni poster con l’immagine del Taj Mahal spassosamente distorto. In questa cornice, effettivamente, si perde un po’ la percezione dell’albero, che comunque tutto avvolge, come una cornice indifferente agli umani affari. I suoi tronchi sono piuttosto radi, ma le loro chiome si espandono dense, e generano una fitta ombra. Subito dopo l’entrata un grosso tronco circondato da centinaia di fili bianchi sembra essere l’albero originario: alla sua base si trova una specie di altare con un lingam, dove i pellegrini depositano le loro offerte. Dopo un paio di ore il posto si fa affollato: come spesso mi capita in viaggio, il karma del professore, direi, vengo assalito da uno sterminato gruppo di scolaretti in gita, con tanto di maestri che mi interrogano sulle mie preferenze sportive.

Kabir Vad

Kabir Vad è per estensione di chioma, il secondo Banyan più grande dell’India, coprendo una superficie netta di circa 17.500 metri quadrati; con i suoi 204 metri di diametro massimo, è anche secondo in questa speciale classifica, dopo il Banyan di Majhi, che misura ben 209 metri. Ed è quello che necessiterebbe di una gestione più razionale, per assicurarne il recupero e la conservazione.

Sulla via del ritorno, piccola sorpresa. E’ cambiata la marea, e la barca traghetto attracca lontano dalla riva, costringendo tutti a bagnarsi fino alla cintola per salirci. Stupenda, “Incredible India”, dove tutto cambia continuamente, pur restando sempre uguale!

Pillalamarri


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