Nel settembre dell’anno scorso mi
hanno sostituito l’articolazione dell’anca, usurata per il troppo
camminare, con una protesi metallica. Quattro giorni dopo l’operazione sono
stato caricato su un’ambulanza, e trasferito in una clinica per la riabilitazione in quel di Impruneta,
vicino Firenze. Il luogo era molto bello, immerso nel verde di pini, querce e
tante altre piante. Come succede a molti di noi, prima di quel
giorno non avevo mai trascorso più di un’ora in un ospedale, per recarmi in
visita ad amici e parenti ammalati. Questi templi del dolore restano
accuratamente nascosti alla quotidianità di gran parte di noi. Sono luoghi dove
la vita, spesso appesa ad un filo, talora vegetativa, altre volte oramai alla
fine, si esprime con una potenza che non immaginavo affatto, nel bene e nel
male. Tanta sofferenza, tanta umanità, i racconti dei compagni di degenza,
pieni di sentimenti, di nobiltà, di tragedie e di piccolezze, di rimpianti e di
dolci ricordi. Un’esperienza forte, bella e triste, di cui fatico ancora oggi a
parlare senza che gli occhi si inumidiscano. Ho nel cuore i volti e le storie
di quelle persone che tanto mi hanno dato, a volte ho pensato di raccontarne
alcune, ma una sorta di pudore me lo impedisce.
L’ultimo pomeriggio che ho
trascorso nella casa di cura stavo arrancando con le stampelle sulle stradine
del parco. La mia depressione era all’apice: abituato da sempre a camminare,
innamorato del lento fluire dei pensieri che diventa tutt’uno con il regolare
incedere dei passi, mi sentivo rigido, menomato, come se il mio perpetuo
Cammino si fosse arrestato. Ad un certo punto, su una lieve salitina che mi
pareva un passo delle montagne himalaiane, ho visto al suolo, risplendente sul
nero asfalto, una piccola ghianda. Era perfetta nella sua forma: rinchiusa per metà nella sua cupola, con la
superficie coperta di sottili striature color verde tenero. Ho pensato che in quella minuscola cosa
compatta si celava una nuova esistenza pronta a prendere essenza, con la
potenza di divenire un immenso albero. Ho percepito forte il mistero della
vita, che negli abitanti di quel luogo sembrava spengersi velocemente, ma che
era sempre pronta a rinascere. Nei mesi precedenti l'operazione mi ero letto alcuni libri
sul buddismo, come mi capita ad intervalli più o meno regolari. Secondo quella
stupenda filosofia le cose non esistono di per se stesse, ma vengono “create”,
perlomeno nei loro attributi, dalla nostra mente. Allora mi sono chiesto se era
la mia mente che imputava a quella ghianda la capacità di nascere e di
diventare albero. Mi sono risposto che comunque quello è un fatto che avviene,
non sempre, ma sta nell’ordine naturale delle cose. Ed allora è sorta spontanea un’altra domanda: è per caso l’energia creatrice
della nostra mente che permette alla vita presente in quella minuscola ghianda
di esprimersi? Non ho trovato alcuna risposta, naturalmente. Ad ogni buon
conto, ho raccolto la ghianda e con grande fatica l’ho sotterrata sul margine
del bosco. Il cuore è ridiventato subito leggero.
Bellissima storia Francesco. La quercia come metafora della vita dell'uomo. Non sono all'altezza di aggiungere altro ma riesco a percepire i sentimenti che vuoi esprimere in modo molto forte.
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