domenica 24 febbraio 2013

Gli Alberi Monumentali d'Italia

Il Castagno Miraglia.  Camaldoli, Arezzo


Il primo di febbraio del 2013 è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la legge n. 10/2013 “Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani”. All’Articolo 7, la legge detta le “Disposizioni per la tutela e la salvaguardia degli alberi monumentali, dei filari e delle alberate di particolare pregio paesaggistico, naturalistico, monumentale, storico e culturale”. Nel primo comma viene specificato che per “albero monumentale” si intende:
a)   l’albero ad alto fusto isolato o facente parte di formazioni boschive naturali o artificiali ovunque ubicate ovvero l’albero secolare tipico, che possono essere considerati come rari esempi di maestosità e longevità, per età o dimensioni, o di particolare pregio naturalistico, per rarità botanica e peculiarità della specie, ovvero che recano un preciso riferimento ad eventi o memorie rilevanti dal punto di vista storico, culturale, documentario o delle tradizioni locali;
b)  i filari e le alberate di particolare pregio paesaggistico, monumentale, storico e culturale, ivi compresi quelli inseriti nei centri urbani,
c)   gli alberi ad alto fusto inseriti in particolari complessi architettonici di importanza storica e culturale, quali ad esempio ville, monasteri, chiese, orti botanici e residenze storiche private.
La legge dispone che i Comuni provvedano al censimento, da aggiornare periodicamente, degli alberi monumentali presenti nel loro territorio; alle Regioni è delegato il compito di raccogliere i dati del censimento dei Comuni di competenza, e di redigere elenchi regionali, da trasmettere quindi al Corpo Forestale dello Stato, incaricato della gestione dell’elenco degli alberi monumentali d’Italia. Di questo elenco nazionale, è prevista la pubblicazione su di un apposito sito internet. Al Corpo Forestale spetta anche il compito di fornire un parere, obbligatorio e vincolante, quando sia necessario provvedere all’abbattimento, od alla modifica della chioma o dell’apparato radicale di un albero monumentale, per casi motivati ed improcrastinabili: tali operazioni sono soggette a specifica autorizzazione comunale. Per l’abbattimento od il danneggiamento di un albero monumentale, fatti salvi i casi di cui sopra, è prevista una sanzione amministrativa che varia da 5.000 a 100.000 euro.
Dal 2004, in Italia la tutela degli alberi monumentali è materia di competenza delle Regioni, che hanno promulgato, anche se non tutte ancora, leggi regionali specifiche, o modificato ed integrato leggi preesistenti (Cliccando qui, si è rimandati alla pagina del sito del CFS, con i link alle normative delle varie Regioni. In calce alla stessa pagina, un link invia ad un interessante articolo di Chiara Lisa, che prende tra l’altro in rassegna le normative europee di tutela degli alberi monumentali, e l’evoluzione storica della normativa italiana). L’articolo di legge citato in apertura (che tra l’altro giaceva in Parlamento dal 2008, come disegno di legge autonomo) è molto importante perché definisce giuridicamente cosa è un albero monumentale, uniformando le definizioni, simili ma differenti tra loro, contenute nelle leggi regionali, e perchè rende omogenee le sanzioni su tutto il territorio nazionale.

L'Abetone. (Abies alba). Foresta dell'Abetone, Pistoia

Per quanto riguarda il censimento previsto nella L. 10/2013, esso, quanto mai benvenuto, non sarà comunque il primo eseguito in Italia Nel 1982, infatti, il Corpo Forestale dello Stato realizza il “Censimento degli Alberi Monumentali d’Italia”: grazie all’opera del proprio personale, ed alle segnalazioni di tanti privati cittadini, vengono localizzati, classificati, misurati, insomma “schedati” più di 22.000 alberi, distribuiti in tutto il territorio della penisola, definiti “Alberi di notevole interesse”. Di questi, a circa 1.250 è stato riconosciuto lo status di “Alberi di grande interesse” (la lista completa è scaricabile sempre dal sito CFS, dal link "Censimento" in fondo alla pagina che si apre cliccando qui) ed, infine, 159 veri e propri Patriarchi della Natura sono stati definiti come “Alberi di eccezionale valore storico o monumentale” (Ho estrapolato dalla lista generale i dati relativi a questa categoria, riportati nella seconda parte del post, suddivisi per Regione, cliccare continua, continua in basso). Tra questi ultimi, alcuni risaltano per dimensioni, come il Castagno dei Cento Cavalli a S.Alfio ed il Liriodendro di Parco Besana, considerato l’albero più alto d’Italia, o per età, come i Larici della Val d’Ultimo o l’Olivastro di San Baltolu, in Sardegna. Altri sono legati alla vita dei santi, come il Faggio di san Giovanni Gualberto a Vallombrosa, il Faggio di San Francesco a Rivodutri, il Cipresso di Campestri, ed altri ancora sono stati testimoni di eventi storici: è il caso del Pino Domestico di Caprera o del Pino Laricio di Sant’Eufemia d’Aspromonte dove Garibaldi, ferito alla coscia sinistra, se ne sedette beato a fumarsi il suo toscano.
Nel 1989 venne pubblicato dalle Edizioni Abete di Roma un bellissimo libro in due volumi di grande formato, “Gli Alberi Monumentali d’Italia”, con immagini di molti Patriarchi e brevi noti esplicative in doppia lingua, italiano ed inglese. Edizione fuori commercio, è reperibile, con una buona dose di fortuna, nelle librerie che trattano l’usato.
L’Associazione Patriarchi della Natura ha elaborato, e cura l’aggiornamento, di un proprio archivio degli alberi secolari, oltre ad avere pubblicato un libro con numerose fotografie, intitolato “Alberi Sacri”- Alberi Secolari in Italia (2010, edizioni La Pica. Urbisaglia, Macerata). Altri interessanti libri sugli Alberi Monumentali, sono quelli di Valido Capodarca, nelle edizioni Vallecchi di Firenze.
Infine, vorrei citare l’ottimo Blog Molise Alberi, con una sezione dedicata agli Alberi Monumentali, contenente immagini e materiale vario.

lunedì 18 febbraio 2013

Fania All Stars



Questo secolare Faggio, conosciuto con il nome di "Fania", abita nelle Apuane, sul versante sud della Pania della Croce, nel comune di Stazzema (Lu).

mercoledì 13 febbraio 2013

Il Vecchio Albero





Nel cuore della foresta viveva un vecchio albero. Nessuno sapeva quanti anni avesse. La
circonferenza del tronco era tale che diciotto uomini non bastavano per
abbracciarlo, le radici si spingevano nella terra per un raggio di
cinquanta metri. Il suolo al riparo della chioma era straordinariamente
fresco. La corteccia era dura come la pietra, tanto che premendovi il
dito, il dito doleva. I rami ospitavano decine di migliaia di nidi e
davano rifugio a centinaia di migliaia di uccelli, piccoli e grandi.
Al mattino, il primo raggio di sole era come la bacchetta di un direttore
d'orchestra che dava il la alla poderosa sinfonia dei canti di migliaia
di uccelli, maestosa come il sorgere del sole dietro la cima della
montagna. Allora tutte le creature della montagna e della foresta si
alzavano lentamente su due o quattro zampe, in stupefatta meraviglia.

Nel tronco dell'albero c'era un foro grande come un melone, a dieci
metri da terra. Nel foro era deposto un piccolo uovo marrone. Nessuno
poteva dire se l'avesse deposto un uccello. Alcuni pensavano che
l'avesse forgiato la sacra aria della foresta unendosi all'energia vitale dell'albero.
Erano passati trent'anni senza che l'uovo si
schiudesse. In certe notti gli uccelli venivano svegliati da una nuvola
sospesa davanti al foro, da cui emanava una luce abbagliante che
illuminava tutta quella parte di foresta. Finalmente, una notte di luna
piena, l'uovo si schiuse e ne uscì uno strano uccello. Era minuscolo,
ed emise un debole cinguettio nella notte fredda. La luna era chiara e
le stelle brillanti. L'uccellino pigolò per tutta la notte. Non era un
verso di disperazione o di baldanza, ma di stupita sorpresa. Pigolò
fino allo spuntare del sole. Il primo raggio luminoso animò la
sinfonia, che eruppe nel canto di migliaia di uccelli. Da quel momento,
l'uccellino non cinguettò più.
Cresceva velocemente. Le madri-uccello
portavano nel foro semi e chicchi. Ben presto il foro divenne troppo
angusto, e l'uccello dovette cercare un posto più grande per vivere.
Aveva imparato a volare, si procurava il cibo da solo e raccolse fili
di paglia per costruire un nuovo nido. L'uovo era marrone, ma l'uccello
era bianco come la neve. La sua apertura alare era ampia, e aveva un
volo lento e silenzioso. Spesso raggiungeva in volo luoghi lontani,
dove bianche cascate precipitavano giorno e notte come se fossero il
respiro maestoso della terra e del cielo.
A volte non faceva ritorno
per molti giorni. Poi riposava nel nido per tutto un giorno e una
notte, tranquillo e pensieroso. I suoi occhi brillavano: non persero
mai l'espressione sorpresa che avevano sin dalla nascita.

Nell'antica foresta di Dai Lao, sul fianco di una collina, sorgeva una capanna da
eremita, in cui un monaco viveva da quasi cinquant'anni. Spesso
l'uccello volava sulla foresta di Dai Lao e di tanto in tanto vedeva il
monaco scendere lentamente il sentiero verso il torrente, tenendo in
mano un otre per l'acqua. Una volta vide un filo di fumo levarsi dalla
capanna, e la collina immersa in un'atmosfera di calore: due monaci
salivano il sentiero che dal ruscello portava alla capanna, parlando
tra di loro. Quella notte l'uccello si fermò nella foresta di Dai Lao.
Nascosto tra i rami di un albero, guardava il fuoco brillare nella
capanna dove i due monaci conversarono per tutta la notte.

Spiccò il volo e salì in alto, sempre più in alto, sopra l'antica foresta. Per
giorni e giorni solcò il cielo senza mai posarsi. Sotto di lui c'era il
vecchio albero; ancora più sotto, le creature della montagna e della
foresta si nascondevano nell'erba, tra i cespugli e nella chioma degli
alberi. Da quando aveva ascoltato i discorsi tra i due monaci, la sua
perplessità era aumentata. Da dove vengo? Dove andrò? Quante migliaia
di anni vivrà ancora il vecchio albero?
L'uccello aveva udito i monaci
parlare del Tempo. Che cos'è il Tempo? Perché il Tempo ci ha condotti
qui, e perché ci porterà via? Il chicco che mangio ha una sua deliziosa
natura, ma potrò mai scoprire la natura del Tempo? L'uccello avrebbe
voluto cogliere un pezzetto di Tempo e posarlo nel nido per poterne
esaminare la natura. Sì, anche se ci fossero voluti mesi o anni.

Di nuovo volò in alto, sempre più in alto, sopra l'antica foresta. Era
come un palloncino che scivolava nel nulla. Sentì che la sua natura era
vuota come quella di un palloncino. La vacuità della sua natura era la
base stessa della sua esistenza, ma anche la causa della sua
sofferenza. "Tempo, se non posso trovare te posso almeno trovare me
stesso", pensò l'uccello.
Per molti giorni restò tranquillamente nel
nido: aveva portato con sé una briciola di terra della foresta di Dalai
Lao. L'aveva presa per esaminarla. Era stato profondamente colpito
dalle parole che il monaco della foresta di Dai Lao aveva detto
all'amico: "Il Tempo è fisso nell'Eternità, dove l'Amore e l'amato sono
Uno. Ogni filo d'erba, ogni zolla di terra, ogni foglia è Uno con quell'Amore".
L'uccello non era stato capace di trovare il Tempo.
Neppure la briciola di terra raccolta nella foresta di Dai Lao rivelava
qualcosa. Che il monaco avesse mentito all'amico? Il Tempo è fisso
nell'amore, ma dov'è l'Amore? Ricordò le cascate che precipitavano
senza sosta nella foresta settentrionale. Ricordava i giorni passati ad
ascoltare dal mattino alla sera il loro fragore. Immaginava di cadere
come una cascata, giocava con la luce che scintillava sull'acqua,
accarezzava le pietre e le rocce che la cascata bagnava. In quei
momenti l'uccello si sentiva cascata, sentiva che il continuo fragore
dell'acqua che precipitava proveniva da lui.

Un giorno, sorvolando la
foresta di Dai Lao, non vide più la capanna. La foresta era bruciata, e
della capanna rimaneva soltanto un mucchietto di cenere. Angosciato,
l'uccello spiccò un volo di perlustrazione. Il monaco non si vedeva
più. Dov'era andato? Dappertutto, cadaveri di animali e di uccelli.
Forse il fuoco aveva divorato anche il monaco?
L'uccello era sconcertato. Dove sei, Tempo? Perché ci porti qui e poi ci trascini
via? "Il Tempo è fisso nell'Eternità", aveva detto il monaco. Se era
così, forse l'Amore aveva ripreso il monaco dentro di Sé.

Di colpo l'angoscia lo invase. Volò rapidamente all'antica foresta. Grida
disperate di uccelli. Crepitii. La foresta bruciava. Volò più veloce,
ancora più veloce. Il fuoco lambiva il cielo. L'incendio era scoppiato
vicino al vecchio albero. Centinaia di migliaia di uccelli strillavano atterriti.
Il fuoco minacciava già il vecchio albero. L'uccello sbatté
le ali con tutta la sua forza credendo di poter spegnere il fuoco, ma
le fiamme si levavano sempre più alte. Si affrettò al ruscello, bagnò
le penne nell'acqua e corse a spruzzarla sulla foresta. Le gocce
sfrigolarono. Non bastava, non bastava. Neppure intridere tutto il suo
corpo d'acqua sarebbe bastato per spegnere il fuoco.

Strida di centinaia di migliaia di uccelli. Strida di piccoli senza penne per
volare via. Il fuoco aveva attaccato il vecchio albero. Perché non
pioveva? Perché i monsoni che si rovesciavano sulla foresta
settentrionale non cadevano anche lì? L'uccello si lasciò scappare un
grido lacerante. Era un grido colmo di dolore e d'amore, e diventò
l'impetuoso fragore di una cascata.
Di colpo l'uccello sentì la
totalità della sua esistenza. Solitudine e vuoto si dissolsero come un
miraggio. La figura del monaco. L'immagine del sole dietro la cima
della montagna. L'immagine di fiumi d'acqua che precipitavano senza
fine attraverso migliaia di vite. Il grido dell'uccello era il fragore
dell'acqua. Senza paura, si lasciò cadere sulla foresta in fiamme come
una maestosa cascata.

Il mattino spuntò silenzioso. I raggi del sole
splendevano come sempre, ma non accesero nessuna sinfonia, nessuna voce
si alzò dalle migliaia di uccelli. Intere parti di foresta erano
carbonizzate. Il vecchio albero era in piedi, ma più di metà della sua
chioma era bruciata. Grandi uccelli morti, piccoli uccelli morti. Il
mattino nella foresta era silenzioso.
Gli uccelli scampati alle fiamme
si chiamavano con voci incredule. Si chiedevano per quale miracolo, il
giorno prima, il cielo sereno avesse lasciato cadere un improvviso
nubifragio che aveva estinto l'incendio. Ricordavano di aver visto
l'uccello che spruzzava acqua dalle ali. Avevano riconosciuto il bianco
uccello del vecchio albero. Coprirono in volo tutta la foresta alla
ricerca del suo corpo, ma non lo trovarono.

Forse era volato via.
Forse era stato bruciato dal fuoco. Il vecchio albero, coperto di
ustioni, non disse nulla. Gli uccelli alzarono la testa verso il cielo
e cominciarono a ricostruire i nidi nella chioma ferita del grande
albero. Avrà nostalgia il grande albero del piccolo uccello che la
sacra aria della montagna e l'energia vitale di quattromila anni
avevano partorito? Uccello, dove sei andato? Ascolta questo monaco:
anch'io credo che il Tempo abbia restituito l'uccello all'Amore da cui
provengono tutte le cose.



Thich Nhat Hanh

lunedì 11 febbraio 2013

Storie di Alberi: il Mito di Erisittone


Erisittone, figlio di Triope e re della Tessaglia, era un uomo empio e violento; disprezzava gli dei, e non bruciava profumi sui loro altari. Di lui si racconta che avesse perfino profanato con la scure un bosco sacro a Cerere (Cerere era la dea romana della Terra e della Fertilità, corrispondente alla Demetra della mitologia greca), contaminando con il fuoco i vetusti alberi. Tra questi si ergeva una Quercia smisurata, dal fusto secolare, un bosco intero da sola: la cingevano festoni, tavolette commemorative e corone, testimonianza di voti esauditi. Sotto la suo chioma spesso le Driadi (nell'antica Grecia, le Driadi erano le ninfe delle querce, che vivevano nei boschi, e ne rappresentavano la "magia verde") intrecciavano danze festose, spesso, tenendosi per mano, avevano fatto girotondo intorno a quell'albero gigante, la cui misura arrivava ad essere quindici braccia; tutto il resto della selva rimaneva inferiore ad esso per altezza, tanto quanto lo era l'erba sotto il bosco. Tutto ciò non bastò comunque a Erisittone per tenere il ferro lontano dalla sacra Quercia: ordinò infatti ai suoi servi di tagliarla. Quando però si avvide che coloro cui era stato dato l'ordine indugiavano timorosi, strappò di mano ad uno di loro la scure, pronunziando queste scellerate parole: "Anche se non fosse solo un albero caro alla dea, ma la dea stessa, toccherà subito il suolo con la sua cima frondosa!". Così disse e, mentre assestava con la scure tremendi colpi, la Quercia di Cerere tremò ed emise un gemito: fronde e ghiande tutte insieme cominciarono a perdere colore ed i lunghi rami si tinsero del medesimo pallore. Appena la mano sacrilega provocò la prima ferita al tronco, dalla corteccia lacerata uscì fuori il sangue, non diversamente da come sgorga dalla cervice troncata di un grosso toro, allorchè cade vittima davanti all'altare. Tutti i presenti rimasero stupiti, ed uno di loro osò impedire il sacrilegio e fermare la crudele ascia. Erisittone lo guarda e gli dice: " Sarai premiato per la tua pia intenzione!". Rivolse quindi la sua ascia contro di lui, e gli mozzò il capo, per poi tornare a colpire la Quercia. Ma dall'interno dell'albero, provenne una voce: "Sotto questo legno vivo io, una ninfa carissima a Cerere, ed in punto di morte, ti predico che è imminente il castigo dei tuoi delitti, cosa che mi consola alquanto". Il re continuò nella sua opera scellerata, e finalmente la Quercia, scossa dagli innumerevoli colpi e tirata dalle funi, crollò ed abbattè con il suo peso molta parte della selva.

Quercia delle Streghe. Lappato, Lucca
Le sorelle Driadi, sbigottite per il danno subito dal bosco e da loro stesse, corsero tutte insieme da Cerere, in pianto e vestite di nero, ed invocarono una punizione per Erisittone. La bellissima dea ascoltò le loro preghiere, e pensò ad una pena che avrebbe destato pietà per chiunque, ma non per lui: decise di farlo straziare dalla terribile Fame.

sabato 2 febbraio 2013

Per me gli Alberi...


"Per me gli Alberi sono sempre stati i predicatori più persuasivi. Li venero quando vivono in popoli e famiglie, in selve e boschi. E li venero ancor di più quando se ne stanno isolati. Sono come uomini solitari. Non come gli eremiti, che se ne sono andati di soppiatto per sfuggire una debolezza, ma come grandi uomini solitari, come Beethoven e Nietzsche. Tra le loro fronde stormisce il mondo, le loro radici affondano nell'infinito, tuttavia non si perdono in esso, ma perseguono con tutta la loro forza vitale un unico scopo: realizzare la legge che è insita in loro, portare alla perfezione la propria forma, rappresentare se stessi. Niente è più sacro e più esemplare di un Albero bello e forte"

Herman Hesse