lunedì 30 gennaio 2012

Alberi Sacri dell'India: Introduzione

Albero di Peepal (Ficus religiosa) con Sadhu.   Varanasi




Presso tutte le antiche civiltà sono esistite associazioni tra  mondo metafisico ed Alberi e Boschi, risultate in un processo di sacralizzazione degli stessi, con effetti di diversa portata sulla vita sociale e spirituale delle varie popolazioni. Nell'Europa antica, alberi e boschi ebbero rilevanza centrale nella religiosità dei Greci, così come dei popoli Germanici e di Roma antica, ma è soprattutto tra i Celti che essi divengono simboli e strumenti della conoscenza iniziatica, luoghi di culto e di insegnamento spirituale, residenza dei druidi, i potentissimi sacerdoti che erano anche maghi e cantori, e fonte di ingredienti per le loro pozioni magiche e medicinali.
Il “progresso” generale delle società e la loro secolarizzazione, con rimozione di buona parte dei significati spirituali della Natura, ostacolo morale allo sfruttamento della stessa, e l’affermarsi di nuove religioni dogmatiche, che vedevano il culto degli alberi, o di qualunque entità non umana, come superstizione pagana in antitesi con la visione antropomorfica dell’assoluto, in definitiva come ignoranza metafisica da rimuovere, hanno ben presto condotto, salvo poche eccezioni geografiche, alla rottura di queste associazioni, alla desacralizzazione degli alberi. Così il cristianesimo già nel 292, con un decreto dell'imperatore Teodosio, proibirà e sanzionerà severamente la dendolatria, considerata come una pratica superstiziosa da estirpare.  

In questo contesto, l’India si pone come caso assolutamente particolare nel panorama mondiale: il culto degli alberi, che si perde nella notte dei tempi, canonizzato dalle scritture sacre, ed ancor prima rappresentato su sculture in pietra dell'età del bronzo, continua in forma diffusa ancora oggi, costituendo una corrente tutt’altro che secondaria nell’immenso fiume della devozione e spiritualità indiane. Esso interessa oltretutto, seppure con intensità e con punti di vista differenti, ogni religione dell’India, con l’unica eccezione del  sikhismo. La superficie di questo sterminato Paese è cosparsa di maestosi alberi, spesso antichi, dove la gente si ferma a pregare ed a meditare, a cui si offrono cibo, acqua, fiori ed incenso. Talora si stagliano su un crinale, esaltati dalle luci dell’alba o del tramonto, qualche volta troneggiano solitari nelle alti valli montane, oppure si confondono nelle nebbie mattutine della pianura, ma sono sempre una componente del paesaggio e della vita  importante, discreta e silenziosa, membri a pieno titolo della comunità. Umanizzati a tal punto che ancora oggi, negli sperduti villaggi dell'India rurale, due piante della stessa specie che crescono accanto sono considerate come marito e moglie, e talora vengono addirittura unite formalmente in matrimonio. Non solo: presso alcune tribù, in situazioni particolari, è tuttora in uso il matrimonio tra un uomo o una donna ed una pianta, che precede il "normale" matrimonio, allo scopo di rimuovere ostacoli vari e di rendere duratura l'unione.

Il Bargad (Ficus benghalensis) all'Hanuman Mandir.   Orchha
 
L’argomento alberi sacri dell’India risulta estremamente vasto e variegato, reso tale sia dall’elevato numero di specie arboree, ma anche arbustive ed erbacee, coinvolte (se ne contano diverse decine), che dalla quantità di storie, miti e leggende, tratte dalle scritture sacre e dai componimenti epici, che le riguardano. Inoltre, esiste una discreta variabilità regionale sui miti che riguardano le singole specie, così come cambiano localmente le associazioni con le divinità, ed i riti che si compiono al loro cospetto. Se infine consideriamo la tradizione magico-folklorica che circonda molte essenze, filoni che nella cultura indiana sono comunque collegati all’ambito spirituale, otteniamo un quadro ancora più complesso.

Nel mio recente viaggio in India ho percorso, per quanto ho potuto, l’affascinante e meraviglioso mondo degli alberi sacri: la mia idea è ora quella di riproporvi sensazioni e conoscenze acquisite in una serie di post, ben conscio della loro limitatezza e parzialità rispetto al guazzabuglio reale. Oltretutto, a fronte di decine di libri e libercoli vari sui “Birds of India”, non c’è verso di trovare un libro completo sulle specie arboree indiane, ed anche libri dedicati al tema “Alberi Sacri” sono pressoché introvabili. Infine, a complicare le cose, c’è la particolarità tutta indiana di chiamare con lo stesso nome specie differenti. Così ho faticato non poco a capire che con il nome di Ber, per esempio, gli indiani chiamano sia il Ficus benghalensis che lo Zizyphus mauritiana, ambedue, ovviamente, alberi sacri (così come, anche se queste non sono specie sacre, con il nome di cir vengono appellate buona parte delle conifere montane, siano esse pini, abeti o picee). Consolato comunque dal sapere che, essendo il fenomeno ancora più diffuso nell’antichità, l’accavallarsi dei nomi ha fatto scervellare generazioni di studiosi, con ben altre implicazioni delle mie.

Lal Bandar Peepal.   Varanasi

martedì 24 gennaio 2012

Il Ragazzo con la Bottiglia




Eravamo sulla riva di Gangaji opposta a quella dove sorge Varanasi, una profonda striscia di sabbia deserta, senza alcuna costruzione, io ed il mio amico Kanaja. Sono trenta anni che mi porta qua a fare il bagno. "Perchè l'acqua è più pulita" - dice lui. Peccato che bagnarsi sull'altra riva non porti alcun merito in termini di punti paradiso. L'affetto di un amico mi vale comunque di più dell'effetto spirituale.
Siamo adagiati sulla sabbia a goderci il sole del mattino. Ad un certo punto arriva un ragazzotto in barca. Avrà una ventina d'anni, robusto e tarchiatello, con i lineamenti del volto piuttosto forti. Ha con se una bottiglia di plastica tagliata a tre quarti, piena d'acqua, portata dall'altra riva. Penso che, come qui fanno tutti, stia andando alla "toilette". Scende dalla barca. Poco avanti ci sono tre minuscole pianticelle, non più alte del palmo di una mano, nate chissà come in quella sterile distesa. Le annaffia con l'acqua della bottiglia, torna subito alla barca senza guardare niente e nessuno, risale e se ne va.

sabato 14 gennaio 2012

Storie di Alberi: il Bhadda Sala Jataka



Il “Bhadda-Sala”, ovvero “Il Buon Albero di Sal”, è un racconto tratto dal “Jataka Mala” (La Ghirlanda delle Rinascite), una voluminosa raccolta di fiabe e parabole della letteratura Buddista. Nel Jataka sono raccontate storie, probabilmente già consolidate anteriormente nella tradizione popolare, che riguardano le 34 precedenti reincarnazioni del Buddha, sia in forma umana che animale, e nelle quali egli matura le qualità mentali e di cuore che lo guideranno alla futura illuminazione. Le prime stesure scritte vengono fatte risalire al quarto-terzo secolo a.C.; alla stessa epoca risalgono alcune sculture raffiguranti le forme di queste reincarnazioni. La versione in lingua Pali, propria della tradizione Theravada, consta di 547 storie, parte in prosa e parte in poesia. Destinate a grandi e piccoli, e divenute famosissime in tutto il mondo Buddista, esse trasmettono in forma semplice e diretta i fondamentali insegnamenti della dottrina. Tra di esse, il Bhadda-Sala è una delle poche in cui il futuro Buddha nasce come Spirito di un albero; le divinità in forma di giovani alberelli rappresentano i discepoli del Buddha, e l’albero di Sal colui che diventerà il Risvegliato.  

Bhadda-Sala-Jataka

Molto tempo fa sulle rive del Gange, nella città santa di Varanasi, c’era un re chiamato Brahmadatta. Era un buon re e governava assai bene; governava talmente bene, da non avere molto da fare. Nella sua terra infatti non c’erano guerre ed il commercio prosperava; la generosità e la gentilezza imperavano, grazie all’esempio del re.
Allora c’erano molti altri piccoli regni nella terra della Mela Rosa – la grande terra che oggi chiamiamo India – e la maggior parte di essi erano afflitti da problemi di ogni sorta. In alcuni erano gli intrighi di corte, in altri infinite guerre di confine, oppure il malcontento del popolo. I governanti di questi regni, avendo udito di Bramhadatta e della sua pacifica e prosperosa terra, lo invitarono a visitarli. Egli andò. Dette loro suggerimenti sul modo di comportarsi di un re. Si informò poi sulle loro politiche e sistemi di governo, prendendo nota di tutto ciò.
Pur essendo uomo modesto, Bramhadatta non poté fare a meno di pensare che il suo piccolo regno sulle rive del Gange fosse il migliore di tutti i regni, e lui stesso il migliore tra i re. Ed il migliore dei re doveva per forza avere il più bello dei palazzi.
Così un giorno si disse: “Ogni re che ho visitato vive in un palazzo sostenuto da molte colonne. Un palazzo con molte colonne è ormai una cosa comune. E se io mi facessi costruire un palazzo sorretto da un’unica colonna?  Allora sarebbe chiaro a tutti che io, Bramhadatta, sono il più grande tra tutti i re”.
Convocò quindi gli architetti e gli ingegneri reali, e comandò: “Fatemi un palazzo sostenuto da una sola colonna” Essi annuirono e risposero: “Molto bene, Maestà, sarà fatto!”
Gli architetti reali si misero al lavoro per progettare il nuovo palazzo. Gli ingegneri si recarono in una foresta dove si trovavano alberi enormi e molto robusti, ognuno di essi capace di essere l’unica colonna del palazzo: essi convennero che quello era il genere giusto di albero, ma la strada che portava alla foresta era pressoché impraticabile, e sarebbe stato impossibile trasportarlo fuori. Quindi tornarono a riferire al re. Il quale insistette: “Con qualunque mezzo possiate escogitare, abbattetelo gentilmente, e portatelo fuori”. Ma i costruttori gli risposero che era proprio impossibile.
Il re era però molto determinato nel suo proposito. Pensò ai molti alberi adatti allo scopo che si trovavano nel suo parco, ed autorizzò il taglio di una sola pianta per costruire il famoso palazzo. I suoi uomini andarono così nel parco, e là trovarono un magnifico albero di Sal, un albero di Sal davvero reale. Era altissimo e diritto come un fuso, con robusti rami che si allargavano tutt’intorno al tronco, e con una circonferenza impressionante. Gli abitanti del posto, e così pure la famiglia reale, erano soliti venerare questa pianta. Gli architetti tornarono dal re e lo misero al corrente della scoperta. Questi ne fu felicissimo: “Avete trovato l’albero giusto per il mio palazzo!”- esclamò- “Andate e tagliatelo!”
I costruttori risposero: “Molto bene, Maestà”. Ritornarono al parco, portando ghirlande profumate di fiori, che appesero all’albero: lo circondarono poi con una corda, ed appesero ornamenti ai suoi rami. Accesero una lampada ad olio, e gli offrirono del cibo.  Quindi dissero: “Tra sette giorni torneremo e taglieremo questo albero. Che lo Spirito che lo abita si trovi un’altra dimora e non ci serbi rancore”.
Lo Spirito dell’albero, udite queste parole, si mise a pensare: “Certamente questi uomini taglieranno l’albero, mi distruggeranno e, così facendo, si porteranno via la mia vita. Ma la cosa peggiore è che la mia casa è circondata dagli Spiriti, tutti miei cari parenti, che dimorano nei giovani alberi di Sal. Molte delle loro case saranno distrutte quando la mia grande casa cadrà al suolo. La mia fine interessa non solo me, ma anche la mia parentela. Devo fare tutto il possibile per offrire loro il dono della vita”.
Così lo Spirito dell’albero si vestì con i suoi abiti divini e, nel cuore della notte, si avviò verso la casa del re, entrò nella sua camera, emise un lungo gemito e, piangendo, si mise dietro al suo letto. Questi si svegliò e lo vide, e cominciò a tremare tutto, terrorizzato come fu dalla visione. Poi, fattosi coraggio, si rivolse allo Spirito:

giovedì 12 gennaio 2012

Guardate queste nobili anime...

Guardate queste nobili anime benedette che vivono solamente per il benessere degli altri, e per gli altri sopportano la durezza delle tempeste di vento, dei forti temporali, del calore estivo e della neve. Guardatele, e difendetele dall'uomo.
Krishna ai pastori nel Bhagavata Purana

Have a look at these great blessed souls who live only for the welfare of others, and themselves undergo, for others, the severity of stormy winds, heavy showers, summer heat and snow, and save them off from us.
Bhagavata Purana

martedì 10 gennaio 2012

Restituiamogli il sorriso!


Sicander è un bambino indiano. Non sa quanti anni ha. Non ha genitori nè fratelli. Viene da un piccolo villaggio. Una famiglia proprietaria di negozi e di una guest house lo ha preso a lavorare. Lavoro è una parola lieve, per un rapporto che spesso rasenta la schiavitù, vista la mancanza di tempo libero, e la paga spesso non data. Sicander passa la maggior parte delle sue giornate in fondo ad un corridoio stretto e buio, seduto su di una panca, con il compito di avvisare i padroni se arriva qualche cliente. La notte dorme sulla stessa panca con una copertina, insufficiente a riparare dal pungente freddo dell'inverno. La mattina pulisce le scale e le camere lasciate dai turisti. Ogni tanto viene mandato fuori per qualche piccola commissione. Quando passo di lì, gli allungo un dolcetto, una banana, qualche rupia. Lui accetta titubante, abbozzando un mezzo sorriso, con uno sguardo misto di stupore e di dignità sopraffatta dalla necessità. Gli insegno qualche parola di inglese. Gli racconto che porta il nome di uno dei più grandi Re dell'antichità (Sicander è il nome che gli indiani dettero ad Alessandro Magno), un guerriero valoroso che aveva conquistato tutte le terre conosciute. Per un attimo i suoi occhi si illuminano, ed il piccolo Sicander comincia a sognare. E' un istante, poi si torna alla cruda realtà.

La storia di Sicander è purtroppo comune a molti altri bambini, non solo indiani, ma di tutto il mondo. Tenere creature, la speranza del futuro, che la vita ha fatto crescere in troppa fretta.

Vorrei vivere in un mondo dove tutti i bambini si preoccupassero solo di giocare e di andare a scuola.