giovedì 24 ottobre 2013

La Foresta dei Violini


Foresta di Paneveggio. Sullo sfondo le Pale di San Martino
La Foresta di Paneveggio è uno dei tanti tesori paesaggistici, naturalistici e culturali custoditi dalle Dolomiti. Adagiata sulle pendici superiori della Val di Fiemme e della Valle di Primiero, si estende su di una superficie di 2.700 ettari, compresa tra i 1.450 ed i 2.050 metri di altitudine; amministrativamente ricade nei Comuni di Predazzo, Tonadico e Siror, tutti situati nella Provincia autonoma di Trento. Dal 1967, anno della sua istituzione, fa parte del Parco Naturale Paneveggio Pale di San Martino.
La vegetazione arborea segna il dominio incontrastato, perlomeno fino ai 1.900 mslm, dell’Abete rosso o Picea (Picea abies), con stupendi esemplari, anche plurisecolari, che raggiungono e superano i 40 metri di altezza. Alla picea si accompagna poco Larice (Larix decidua), più abbondante alle quote superiori e, sempre alle altitudini maggiori, il Pino cembro (Pinus cembra), che si spinge fino al limite della vegetazione arborea. L’abete rosso trova qui le migliori condizioni ecologiche per prosperare, e per produrre una discendenza di giovani piantine laddove eventi naturali, o tagli mirati eseguiti dall’uomo, aprendo la copertura del vecchio soprassuolo, ne permettono l’insediamento.

Abete rosso (Picea abies Karst.)
La foresta ha una lunga storia: fu per secoli proprietà dei Conti del Tirolo, come citato in ordinanze forestali del 1651 e del 1698. Nel 1847 Ferdinando I, imperatore d’Austria, riconobbe il diritto di proprietà dei conti tirolesi, stabilendo nel contempo che alcune porzioni di bosco potessero essere dati in proprietà ai Comuni, come risarcimento per gli antichi diritti di servitù. La parte che restò di proprietà tirolese, transitò nel 1919 allo Stato italiano, con il trattato di Saint Germain; nel 1951 la proprietà passò quindi alla Regione autonoma Trentino Alto-Adige, ed infine, nel 1973, con il secondo statuto di autonomia, fu attribuita alla Provincia Autonoma di Trento. Circa 700 ettari di foresta provengono invece dalle proprietà comuni ed indivisibili della Magnifica Comunità di Fiemme, una istituzione politico amministrativa autonoma, del tutto particolare, risalente addirittura al XII secolo. Attualmente, è il Servizio Parchi e Foreste Demaniali della Provincia Autonoma di Trento che ne cura la gestione economica e la sorveglianza, oltre ad occuparsi delle fasi della trasformazione e vendita del legname tramite la segheria demaniale di Caoria. Il legno ottenuto da queste foreste, come da altre, trentine e del Cadore, veniva utilizzato nei cantieri navali della Serenissima Repubblica di Venezia: circa due secoli fa, a causa dell’intenso sfruttamento dei veneziani, la superficie boscata di Paneveggio si ridusse a circa un terzo di quella attuale.

Il Lago di Paneveggio
La Foresta di Paneveggio è conosciuta da quattro secoli come la Foresta dei Violini, perché da alcuni tronchi particolari di abete rosso si ricava il legno con cui vengono costruite le tavole armoniche (la faccia superiore della cassa armonica) dei violini e degli altri strumenti ad arco (viole, violoncelli e contrabbassi), oltre che, sebbene in misura minore, di chitarre e pianoforti. Paneveggio non è l’unico luogo dove si trova questo preziosissimo legno, che è infatti prodotto anche nella foresta di Tarvisio e del Latemar, in alcune località svizzere e dei Monti Carpazi, ed in Germania, nella Foresta Nera e nell’Erzgebirge. Ma la superiorità dell’abete rosso di Paneveggio è sancita dalla scelta dei grandi liutai italiani del ‘600 e del ‘700, primi tra tutti Antonio Stradivari e Nicolò Amati, che con questo legno realizzarono i loro inarrivabili strumenti. Si racconta che Stradivari si aggirasse ogni anno, talvolta in pieno inverno, tra i boschi di Paneveggio, per scegliere personalmente il legno per i propri strumenti, cosa che d’altronde ancora oggi fanno numerosi liutai (parte del legname è infatti venduto direttamente sul letto di caduta, di modo che gli utilizzatori  possano provvedere per conto proprio alla depezzatura ed alla stagionatura del materiale, vaya pignoleria!). Quanto ciò corrisponda a verità, o piuttosto non sia leggenda, non è dato sapere: una delle poche evidenze è riportata da Aldo Zorzi nel suo libro “Strenna Trentina”, dove narra un aneddoto che avrebbe coinvolto un suo antenato. Pare che il Maestro nella primavera nel 1719, mentre si recava a Paneveggio per una delle sue periodiche visite, si trovasse a passare per la località di Bellamonte, quando vide dei muli che stavano trasportando delle travi destinate alla costruzione di una baita. Avendo intuito che una di quelle travi aveva una qualità musicale eccezionale, fermò gli animali, e chiese al contadino di vendergliela. Il contadino sul momento non voleva privarsi di quel trave, che aveva già gli incastri per la sovrapposizione, e che gli serviva subito. Ma Stradivari insistette tanto che convinse l’uomo a venderglielo, pagando un bel gruzzolo di lire veronesi, ed a conservaglielo fino all’anno successivo nella sua baita.
Parte della straordinaria qualità musicale dei suoi violini è dovuta al fatto che gli alberi utilizzati erano cresciuti in un'epoca climaticamente assai fredda, molto più di quella attuale, fattore che aveva conferito a quei legni caratteristiche acustiche di assoluta perfezione.
 
Fustaia di Abete rosso. Paneveggio


Il legno utilizzato per la costruzione delle tavole armoniche prende il nome di “legno di risonanza”, e solo una piccola percentuale degli abeti rossi della foresta è in grado di fornirlo (rappresenta solo lo 1% del legname totale prodotto dalla foresta, in termini di volume dai 20 ai 50 metri cubi ogni anno). Si tratta di alberi di grosse dimensioni, con diametro ad 1,30 metri da terra di 50 cm ed oltre, che corrispondono, in queste condizioni, ad una età variabile tra i 150 ed i 250/300 anni, con fusti diritti e cilindrici, perfettamente sani, senza nodi, senza tasche di resina e senza legno di reazione (Legno che si forma nelle zone sottoposte a compressione, come quelle presenti in fusti inclinati e contorti). Il legno di risonanza ha gli anelli di accrescimento annuale molto sottili (da 0,8 a 2 mm per i violini, fino a 5 mm per le chitarre), di spessore costante, e con una netta prevalenza del legno primaverile (la porzione più chiara dell’anello) su quello tardivo; la fibra deve essere perfettamente rettilinea e parallela. Anche a livello microscopico, sono osservabili  particolarità esclusive, tra cui il diametro delle tracheidi (i vasi che trasportano la linfa nelle conifere), lo spessore delle pareti cellulari, la uniforme distribuzione di elementi chimici e di microfibrille, sempre nelle pareti cellulari. Le caratteristiche elencate hanno ovviamente tutte una propria influenza sulla risposta complessiva del materiale, sia in termini acustici, che di resistenza. Il legno di risonanza di abete rosso si caratterizza infatti per la notevole elasticità, la quale garantisce una ottimale trasmissione del suono nelle tre direzioni, con una elevata risposta in tutte le frequenze, e per l’altrettanto notevole resistenza meccanica, nonostante sia molto “leggero” (quello di Paneveggio ha massa volumica di circa 400 kg/m³). L’insieme di questi caratteri si  manifesta in seguito alla lentissima crescita degli abeti, determinata dalla rigidità del clima e dalla brevità della stagione vegetativa. (Probabilmente intervengono anche fattori di tipo genetico, ma le ricerche in questo campo non sono ancora state approfondite). Un particolare tipo di legno di risonanza, chiamato “legno con indentature”, è quello che presenta una anomalia visibile degli anelli di accrescimento, consistente in leggere introflessioni dell’anello stesso rivolte verso il centro della pianta, e che si ripetono per alcuni anelli consecutivi (vedi foto, si fa prima che a spiegarlo!). 

Legno di risonanza con indentature
Questo legno è volgarmente chiamato “legno maschiato”, e l’albero che lo produce “abete maschio” (senza nessun riferimento al sesso, poiché l’abete rosso è specie ermafrodita); in dialetto locale è chiamato anche “noselér”, perché ha una certa somiglianza con il legno del nocciolo. Curioso il termine in lingua francese, che è “bois tricoté”, ovvero “legno lavorato a mano”. Sebbene le numerose ricerche sull’argomento non abbiano identificato per il legno con indentature nessuna caratteristica che lo renda migliore del “comune” legno di risonanza, molti liutai continuano a preferirlo, per ragioni estetiche, certamente, ma anche perché convinti che suoni meglio.



Gli alberi migliori per la produzione del legno di risonanza sono quelli che crescono in esposizione nord e nord-est, su terreni poco inclinati e ben forniti di acqua; l’idoneità alla produzione può essere fino ad un certo punto intuita anche su piante in piedi, fermo restando che le proprietà acustiche saranno compiutamente valutate solo una volta eseguito l’abbattimento (a cui seguiranno successive selezioni in segheria ed anche dopo) e che comunque, per ragioni di sostenibilità, le piante idonee non provengono da utilizzazioni mirate, ma dalle normali utilizzazioni forestali, e vanno quindi accuratamente selezionate sul letto di caduta. Una prima valutazione delle caratteristiche del legname viene fatta anche percuotendo con un bastone il tronco di piante in piedi od atterrate, ed ascoltando la “risposta”. Spesso i tronchi migliori si rivelano già durante le fasi di trasporto degli stessi verso valle, quando urtando tra loro, o con gli alberi in piedi, “cantano” in modo particolare. Una volta ho sentito raccontare, ma forse questa è una leggenda, che alcuni liutai appoggiano un orologio ad una estremità dei tronchi a terra (che hanno lunghezze tra i 4 e gli 8 metri), e mettendo un orecchio alla estremità opposta, valutano il legno dal modo in cui sentono, o non sentono, il ticchettio del meccanismo! Il taglio degli alberi avviene con la luna in fase calante, e durante il riposo vegetativo, ovvero in autunno, o meglio ancora in pieno inverno, condizioni in cui il basso contenuto di acqua nei tessuti delle piante favorisce la stagionatura, l’uniformità del colore e la resistenza agli attacchi dei funghi e degli insetti del legno. Dopo l’abbattimento le piante vengono lasciate a terra con i rami attaccati, ad “appassire” per alcuni giorni, sempre al fine di diminuire il contenuto d’acqua, traspirato dall’apparato fogliare ancora vivo. I tronchi vengono quindi trasportati in segheria, dove  si procede al taglio ed alla stagionatura. Depezzato e scortecciato il tronco, si provvede allo spacco dei tronchetti in quarti od ottavi, operazione effettuata, per le tavolette da violino, con ascia e/o cunei in senso radiale (ovvero lungo i raggi che collegano il centro del tronchetto alla circonferenza esterna), che avviene quando il legno è ancora fresco, e preferibilmente d’inverno, quando è gelato, per facilitare lo spacco. La porzione verso il centro viene eliminata dal momento che, rappresentando la crescita giovanile della pianta, ha anelli più distanziati, e talora presenta anche dei nodi. Le tavolette ottenute, a forma prismatica, con sezione trapezoidale, vengono quindi piallate e messe a stagionare; le testate possono essere paraffinate per evitare rotture dovute al ritiro del legno. La stagionatura è una fase di estrema importanza, e dura da un minimo di tre, fino ad oltre dieci anni. Può avvenire completamente all’aperto, in cataste lasse per favorire la circolazione dell’aria, e coperte per ripararle dalla pioggia e dai raggi solari, oppure parte all’aperto, e parte in un apposito locale di legno (la xiloteca), fornito di aperture per la circolazione dell’aria, e con umidità controllata. 

Tavoletta di risonanza per violino finita e pronta per il commercio
Il violino nasce probabilmente agli inizi del 1500 nell’Italia settentrionale, discendente di una numerosa famiglia di strumenti molto antichi, in cui il suono viene ottenuto per “sfregamento” delle corde con un apposito archetto. (Tra i tanti antenati, provenienti da diverse parti del mondo, vi è la ribeche o ribeca, di origine araba, importata in Spagna intorno all’ VIII secolo, che aveva da due a cinque corde ed era ricavata da un unico pezzo di legno massiccio, e la viella, risalente all’XI secolo, con numero di corde variabile da tre a cinque. Come il violino, questi strumenti non avevano tasti, ed erano accordati per intervalli di quinta).  I primi violini giunti fino alla nostra epoca risalgono comunque alla seconda metà del ‘500, quando nascono le due più prestigiose scuole di liuteria del mondo: quella bresciana, fondata da Gasparo da Salò, e quella cremonese, fondata da Antonio Amati. Al 1581 risale la prima composizione scritta appositamente per violino ( il “Ballet Comique de la Reine”). Usato in quei tempi da musicisti di umile origine per eseguire musica “popolare”, il violino era comunque considerato uno strumento di importanza secondaria; il secolo successivo vede invece crescere enormemente la sua popolarità, grazie all’impiego nelle nuove forme musicali dell’opera, del concerto e della sonata. Con la morte nel 1630 di Giovanni Paolo Maggini e di altri liutai bresciani, sterminati dalla peste che colpì la città, inizia il declino della scuola bresciana, mentre inizia l’apogeo di quella cremonese, che tra il 1650 ed il 1750 vide l’opera di coloro che sono considerati i più grandi liutai di tutti i tempi, ovvero Nicolò Amati (nipote di Andrea Amati), Giuseppe Guarneri “del Gesù” (così soprannominato perché firmava i suoi violini con la sigla IHS, abbreviazione del termine greco che significa Gesù) ed Antonio Stradivari, che insieme a Guarneri è ritenuto il più grande in assoluto. Stradivari, allievo di Nicolò Amati, costruì un migliaio di strumenti, di cui ne sopravvivono circa 650 esemplari, i quali hanno oggi quotazioni vertiginose. Nella stessa epoca appare il primo dei grandi liutai stranieri, nella persona di Jacob Stainer, austriaco del Tirolo, i cui strumenti furono i preferiti di Mozart e di Bach. I violini di Amati e di Stainer si caratterizzano per un suono molto dolce e poco potente, mentre quelli di Stradivari e di Guarneri esprimono una grande potenza di suono. Il periodo d’oro di Cremona termina nel 1762, con la morte di Pietro Guarneri; il 1800 vede l’inizio della supremazia delle scuole di liuteria straniere, la cui produzione è considerata comunque di qualità inferiore rispetto ai violini italiani dei due secoli precedenti. Anche se la forma del violino si cristallizza nel ‘600, esso subirà diverse modifiche, alcune sostanziali, altre di secondaria importanza: spesso gli strumenti del ‘600 e del ‘700 sono stati modificati in seguito, per adeguarsi all’esecuzione delle nuove composizioni dell’epoca, che richiedevano diversi requisiti sonori.

Fondo intarsiato di cassa armonica di violino
Il violino è un capolavoro assoluto in termini acustici, strutturali ed estetici. Caratteri che condivide con gli altri strumenti ad arco, ma con un fascino indiscutibilmente unico, e superiore: non a caso è lo strumento musicale che più si avvicina alla voce umana, e di fatto uno tra quelli, insieme al pianoforte, che vanta il maggior numero di composizioni dedicate. Un violino nasce dalla perfetta alchimia tra la magia delle mani di chi lo costruisce, la scelta dei materiali che lo compongono, ovvero, corde a parte, esclusivamente legno, e la vernice che lo ricopre, sensibile come una pelle. Le vernici utilizzate sono mantenute rigorosamente segrete da ogni liutaio, da sempre tramandate nelle botteghe dal maestro all’apprendista. La costruzione di un violino di qualità è un lavoro molto lungo e laborioso, eseguito completamente a mano, di modo che ogni strumento è un pezzo unico, dotato di un’ “anima” personale ed irripetibile. Vengono richieste precisioni nello spessore della tavola armonica e del fondo dell’ordine del decimo di millimetro, cosa oggigiorno facilitata dall’uso di appositi strumenti di misura, ma un tempo frutto della sola abilità del liutaio. Il quale non è solo un mastro falegname, ma deve essere anche un ottimo ebanista ed intarsiatore. Gli strumenti ad arco hanno la capacità unica di migliorare la qualità del proprio suono con il tempo. Ovviamente non tutti, come ebbe a spiegarmi il liutaio che costruì il mio: “I violini sono come il vino. Quello buono, non solo regge l’invecchiamento, ma con il tempo affina il suo gusto ed il suo profumo. Quello poco buono, dopo poco rivela tutti i propri difetti, e se ne va in aceto”. Ed a proposito di tempo, è impressionante quanto possa “vivere”, se si pensa che sono ancora sani e robusti, e soprattutto suonati, ed ambiti dai più grandi Maestri, violini che hanno quasi quattrocento anni!

Priamo, 1980. Liutaio Maraviglia, Pistoia
Per le parti che compongono lo strumento si utilizzano legni di specie differenti, in relazione alla funzione. Così il fondo, le fasce laterali, il ponticello ed il manico, che sopportando la tensione delle corde richiedono doti di resistenza, sono fatte di Acero, un legno abbastanza duro, che tra l’altro contribuisce non poco, con i disegni delle sue venature (tra cui la “marezzatura” e, alquanto rara, l’ “occhio di pavone”) al risultato estetico complessivo. Si utilizza l’Acero montano (Acer pseudoplatanus): le provenienze preferite sono quelle dei Balcani, tanto che i liutai (e solo loro, a quanto mi risulta!) lo chiamano Acero dei Balcani. Di Abete rosso, oltre alla tavola armonica, sono costruite pure l’anima e la catena, particolari interni della cassa, essenziali per la qualità sonora e per la stabilità strutturale. La tastiera, incollata sopra il manico è realizzata in Ebano (Diospyros ebenum ed altre specie), legno durissimo dal colore nero, che cresce in Madagascar ed in India, adatto a sopportare senza modificarsi gli infiniti passaggi delle dita dei violinisti. Sempre di Ebano si realizzano la cordiera, la mentoniera ed i piroli (sono i perni all’estremità del manico su cui si avvolgono le corde, e che ne permetteno l’accordatura: non si devono “muovere” al variare dell’umidità, appunto per non perdere l’accordatura). Invece dell’Ebano, e fatta esclusione per la tastiera, viene talora impiegato il Bosso (Buxus sempervirens), un legno molto duro, dal bellissimo colore giallo. Nel corso dei secoli nella costruzione dei violini si sono impiegati diversi altri tipi di legno (altre specie di  Acero e di Picea, europee ed americane, il Pero, addirittura Faggio, Betulla ed Abete bianco), vuoi come esperimento, che per necessità, in mancanza di altro. Ma la combinazione più utilizzata resta quella sopra indicata, e con quei legni sono sempre stati costruiti i violini migliori.

Cappella dell'Assunta. Paneveggio
In omaggio al luogo natio del legno dei loro strumenti, nella Foresta di Paneveggio si sono esibiti in passato alcuni dei più grandi violinisti contemporanei, tra cui Salvatore Accardo, Uto Ughi, i Solisti Veneti, il violoncellista Mario Brunello. Ogni anno la Magnifica Comunità di Fiemme dedica, nel corso di una cerimonia, un abete, situato in un gruppo presso il lago, ad un musicista che con il suono del proprio strumento abbia contribuito a far conoscere questo meraviglioso legno. Su una piccola tabella, posta davanti all’albero scelto da Uto Ughi, c’è scritto: “ Noi abeti di questo bosco abbiamo potuto esprimere armonie ed intense vibrazioni grazie al suo cuore ed alla sua magia. Grazie maestro Ughi”. Tanto per restare nel retorico, appare stupendamente vera anche l’asserzione inversa: “ Noi uomini di questo mondo abbiamo potuto riempire i nostri cuori di gioia ed emozione grazie alla vostra grande anima, custode dell’ inarrivabile musica della Natura. Grazie Abeti!


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