Pompei, Particolare di muro di cinta |
Era un venerdì qualunque di una primavera alquanto restia a decollare.
Proprio qualunque non era (e soprattutto non lo sarebbe stato, ma ancora non potevo saperlo), in quanto, essendomi la mattina inviato, la parola svegliato non esistendo più nel mio vocabolario, moderatamente arzillo e di buon umore, avevo deciso di concentrare il mio karma yoga settimanale, accuratamente disatteso nei giorni precedenti, in quella sola mattinata, e di mettere finalmente mano alla targa che campeggia in sinistra di casa mia, su cui è disegnato un Om e dipinto, con calligrafia invero assai incerta ed infantile, ovvio d’altronde è la mia, il nome della casa, ovvero “il Demonio”. La suddetta targa è formata da una cornice di 12 elementi che racchiude 8 mattonelle, delle quali, al momento dell’intervento programmato, solo una era ancora appiccicata alla parete e quindi era tempo di agire, prima che la sua caduta mi privasse della necessaria guida appositiva. Si trattava solo di incollare, a guisa di mosaico, i mille pezzi in cui si erano frantumati gli originali. Un lavoro che una mente sana poteva portare a termine, diciamo, massimo in una oretta. Io avevo già trascorso tre ore buone prono sul marciapiedino antistante, anch’esso da ripristinare, è oramai diventato uno scassapiedino, nel tentativo di una ricomposizione preventiva, visto che non mi potevo certo mettere a cercare i pezzi una volta sulla scala, e non ne ero ancora venuto a capo.
Proprio qualunque non era (e soprattutto non lo sarebbe stato, ma ancora non potevo saperlo), in quanto, essendomi la mattina inviato, la parola svegliato non esistendo più nel mio vocabolario, moderatamente arzillo e di buon umore, avevo deciso di concentrare il mio karma yoga settimanale, accuratamente disatteso nei giorni precedenti, in quella sola mattinata, e di mettere finalmente mano alla targa che campeggia in sinistra di casa mia, su cui è disegnato un Om e dipinto, con calligrafia invero assai incerta ed infantile, ovvio d’altronde è la mia, il nome della casa, ovvero “il Demonio”. La suddetta targa è formata da una cornice di 12 elementi che racchiude 8 mattonelle, delle quali, al momento dell’intervento programmato, solo una era ancora appiccicata alla parete e quindi era tempo di agire, prima che la sua caduta mi privasse della necessaria guida appositiva. Si trattava solo di incollare, a guisa di mosaico, i mille pezzi in cui si erano frantumati gli originali. Un lavoro che una mente sana poteva portare a termine, diciamo, massimo in una oretta. Io avevo già trascorso tre ore buone prono sul marciapiedino antistante, anch’esso da ripristinare, è oramai diventato uno scassapiedino, nel tentativo di una ricomposizione preventiva, visto che non mi potevo certo mettere a cercare i pezzi una volta sulla scala, e non ne ero ancora venuto a capo.
Forse è giunta l’ora di divagare, ed unendo l’utile al dilettevole, visto che l’argomento è in tema, e così nel frattempo tralascio il lavoro, due parole sul perché del nome Demonio. Tre sono le ipotesi maggiormente accreditate, tra le tante di cui sono venuto a conoscenza nel corso degli anni. Secondo la prima, agli inizi del secolo passato qui viveva tale Agenore, un contadino brutto, ma proprio brutto, brutto come la peste bubbonica, dicevano i popolani. La sua era una famiglia numerosa (non va dimenticato che a quei tempi non c’era la TV, e la sera il tempo si passava in altre faccende affaccendati), il podere circostante veniva definito eloquentemente “podere di fame”, mercé la sua scarsa produttività, ed il povero uomo era costretto a lavorare anche la notte per sfamare tutte quelle bocche (anche la moglie preferiva di gran lunga saperlo nel campo a lavorare, che non trovarselo accanto nel letto, a rumestarle sotto le vesti). Per farla breve, laonde poter vedere di notte, portava appeso alla cintola uno di quei vecchi lumini a carburo, il quale gli proiettava sul viso, già tremendo di suo, come ricordato, un sinistro ventaglio di luce azzurrognola. Una notte il suo vicino, invitato senza possibilità di replica a dormire fuori casa dalla moglie, causa palese ubriachezza di tipo molesto, se lo trovò davanti nel suo peregrinare a zig zag, ebbe un imbiancamento subitaneo della chioma, giurò, sapendo di mentire, di smettere di bere, fuggì a gambe levate, e tornò a casa urlando come un forsennato : “Moglie, apri subito, ho visto il Demonio!”. Di lì il soprannome appioppato ad Agenore per il resto della sua vita, nome transitato poi sulla casa (il vicino, invece, si conquistò quello di sbianchino, oltre che per i capelli anche perché, dopo il fatto, l’incrementata attività enologica gli ha procurato diversi grippaggi, con cambiamento oramai irreversibile di colore verso il bianco stinto).
Un altra versione, invero la meno interessante, ha connotazioni geografiche: pare che Demonio venissero chiamati quei luoghi esposti a nord, dove poco batteva il sole, e l’ombra la faceva da padrona. Qualcuno sarà passato esclamando: “Ma a chi demonio è venuto in mente di costruire una casa proprio qui?” Andiamo quindi alla ipotesi ecclesiastica. Casa mia è sospesa tra tre paesi: Torrevecchia, che non ha la chiesa ma ha costruito la prima Casa del Popolo della provincia, Torcigliano, che non ha la Casa del Popolo ma ha la chiesa, però gli è sempre mancato il prete, e Sanrossolo, niente CdP, ma chiesa con parroco residente. Le nere pecorelle di Torcigliano sono quindi state sempre accudite da pastori esterni. Un tempo il curato veniva da Sanrossolo, a piedi, partendo un tre ore buone prima della funzione, e tornando a notte fatta. Le beghine di là, gelose di quelle di qua, insinuavano che a metà strada incontrasse la tentazione del Demonio, alla quale invero, con ammirevole coerenza, non risulta abbia mai opposto resistenza, e si fermasse nella casa, allora disabitata, a zipillare a babbo morto. Con una poco di buono di Torcigliano, ovviamente. Le torciglianesi rimandavano l’infamia alle sanrossolesi: sulla fornicazione non ci fu mai dubbio né discussione alcuna, sul campanile di provenienza delle diaboliche concubine non è ancora stata fatta chiarezza. Oggi il cura viene da Ponte alle Favole, don Botta lo chiamano le vecchine: l’unica tentazione a cui cede, come lascia intuire l’appellativo, è il vino, anzi, non si muove dalla sua canonica se non è garantito un adeguato numero di litri di tentazione.
Un altra versione, invero la meno interessante, ha connotazioni geografiche: pare che Demonio venissero chiamati quei luoghi esposti a nord, dove poco batteva il sole, e l’ombra la faceva da padrona. Qualcuno sarà passato esclamando: “Ma a chi demonio è venuto in mente di costruire una casa proprio qui?” Andiamo quindi alla ipotesi ecclesiastica. Casa mia è sospesa tra tre paesi: Torrevecchia, che non ha la chiesa ma ha costruito la prima Casa del Popolo della provincia, Torcigliano, che non ha la Casa del Popolo ma ha la chiesa, però gli è sempre mancato il prete, e Sanrossolo, niente CdP, ma chiesa con parroco residente. Le nere pecorelle di Torcigliano sono quindi state sempre accudite da pastori esterni. Un tempo il curato veniva da Sanrossolo, a piedi, partendo un tre ore buone prima della funzione, e tornando a notte fatta. Le beghine di là, gelose di quelle di qua, insinuavano che a metà strada incontrasse la tentazione del Demonio, alla quale invero, con ammirevole coerenza, non risulta abbia mai opposto resistenza, e si fermasse nella casa, allora disabitata, a zipillare a babbo morto. Con una poco di buono di Torcigliano, ovviamente. Le torciglianesi rimandavano l’infamia alle sanrossolesi: sulla fornicazione non ci fu mai dubbio né discussione alcuna, sul campanile di provenienza delle diaboliche concubine non è ancora stata fatta chiarezza. Oggi il cura viene da Ponte alle Favole, don Botta lo chiamano le vecchine: l’unica tentazione a cui cede, come lascia intuire l’appellativo, è il vino, anzi, non si muove dalla sua canonica se non è garantito un adeguato numero di litri di tentazione.
Avere una casa con un nome simile porta ovviamente sia vantaggi che svantaggi. Vantaggi: eliminazione sul nascere dei tentativi di abbordo da parte di Testimoni del Genoa, Rosaincroce, HariKrisnotti et affini, mancata benedizione et obolo pasquale, mantenimento alla larga dell’elettorato cattolico maschile. Svantaggi: incaponimento da parte di Testimoni del Genoa, Rosaincroce, HariKrisnotti et affini nel glorioso compito di convertire l’abitante di un luogo così malnomato, visite di don Botta, tantallevolte il vino demoniaco avesse gradazioni interessanti, mantenimento alla larga dell’elettorato cattolico femminile. Quest’ultimo è certamente il lato peggiore: già restie all’imbocco della strada, vieppiù inviperite dagli scossoni e dai fuoribordo da barca a vela imposti da alcuni punti, le cattolichine sbroccano definitivamente al leggere la targa, o ad intuirne comunque, con capacità inimmaginabile, la scritta anche con la sola lettera D, l’unica rimasta attaccata; di poi, inevitabilmente, arricciano l’anima e chiedono di essere riaccompagnate. A piedi, possibilmente.
Fine della divagazione.
Miravo e rimiravo quegli stupidi pezzi di ceramica. Sembravano tutti uguali. Stavo saggiamente per desistere, quando alle mie spalle sento un brontolio sordo e confuso:
“…denti, …accia mis.., il quiddish poi, poerammè…”.
Mi volto di scatto, e chi ti vedo seduto sull’omnipervadente edera, che nella fattispecie ricopre la vecchia fontana?
“Arnolfo!!! Buondì, e te da dove sbuchi?”
In un lampo ricordo però che quell’ometto è stata la causa della mia incurabile insonnia:
“Bel regalo mi hai lasciato l’ultima volta, mago da strapazzo. Prima di ogni eventuale ciancia, risolviamo questa quistione!”.
“Buongiorno un tubo, per cominciare! Mettitici anche tu, per continuare. …aspetta con l’insonnia… ridiolo… le scope volanti, ma quando mai? … sto potta…
“Don Botta?” - lo interruppi assai sorpreso ed incuriosito - “Che lo conosci anche tu? Ma cosa c’entra lui? Si può sapere con chi ce l’hai?”
Che fosse incazzato, mi sembrava normale. Che non lo fosse con me, già assai meno. Mentre bofonchiava, lisciandosi nervosamente la barba, e scuotendo il testone, io lo osservavo sempre più stupefatto. Il mago era completamente rimpulizzito, barba capelli unghie pelurie varie pulite ed ordinate, il cappellone accuratamente spazzolato, la sua assurda marsina rinnovata, ben stirata, e forse anche vagamente profumata al cavolo violetto (non sono però sicuro che provenisse da lui, c’erano anche diversi sacchetti di monnezza da tramutare al cassonetto, in fase di paziente accumulo, e parziale decomposizione, davanti alla porta). Il tocco geniale erano però quei due fiocchi a strisce nerazzurre che spuntavano dalle fibbie delle ghette. Mi sembrò ringiovanito, al contempo che la sua ghirba accidiosa, come dire, pareva per brevi lampi trasformarsi in qualcosa di simile alla parvenza di gentilezza. Molto lontano, a voler essere sinceri.
“ Arri Potta, macché don Botta. Conosco pure lui, purtroppo per me, quello scroccone di un prete seccabotti! Lui non c’entra nulla, ed è bene che non c’entri, soprattutto in cantina! Arri Potta… Potta, quello stupido maghetto… Pfui! …scuola di magia…che massa di baggianate…”
“E tu che ne sai ?”
“UUU- la sua voce si fece vento, nel mentre che arricciava le labbra in segno di profondo disgusto – ieri sera l’ho visto al cinema!”
Mi schiantai a ridere.
“E che ci sei andato a fare al cinema?”
Non riuscivo proprio ad immaginarmelo nel bel mezzo di una massa umana, tutti a guardarlo, e lui di rimando incacchiato nero.
“Vedere non mi ha visto nessuno, non ti preoccupare. Il problema è un altro, accidenti a, a, a…ed è anche grosso, il problema intendo… maremma impestata, questa non mi ci voleva!” Quindi il mago virò abilmente il discorso : “ Ma che aspetti a prepararmi la colazione, babbeo?”
Ecco sì, raddolcito.
“Avrei da fare, se non ti dispiace”
“Bona, Ugo! E cosa demonio staresti nafantando, razza di svantaggiato?”
Raddolcito. Si, davvero.
“Ho, anzi avevo, da ricomporre e riattaccare ‘sta targa”
“Scostati, impedito, lascia fare a me!”
Arnolfo si accucciò davanti ai frammenti e si mise a studiarli. Prendeva due pezzi e cercava di farli collimare, girandoli rispettivamente in tutte le posizioni. La lingua rossa come un peperone fuori bocca, a destra, stretta tra i denti. Li posava poi, con lo sguardo sempre più inviperito ed un ansimare presto assai in crescendo, e ne prendeva altri due. E così via. Cominciavo a divertirmi, inorgoglito di non essere l’unico incapace in circolazione in questo angolo di universo. Di colpo quel pazzoide cominciò a urlare, sparigliò con un secco gesto della mano quel mondo esoterico, ed infine borbottò qualcosa tra i denti. Un attimo dopo le mattonelle erano state perfettamente ricomposte ed anche riattaccate con un certo garbo al loro posto. Perfettamente in senso eufemico, giacché l’Om era sparito e la scritta si era tramutata da “Demonio” in “Gemonio”, un nome che peraltro avevo già udito da qualche parte. Era ovviamente impossibile rimediare. “Oè, che ti credi, non siamo mica qui a rincorrere le limacce! Ho usato una colla al croccante mielato di vischio, roba magica lantanide, per così dire, non si stacca neanche con l’atomica!”. Rimasi comunque completamente soddisfatto a metà: il lavoro era stato fatto, in un modo o nell’altro. Gemonio, ma dove l’avevo sentito? Gli effetti futuri di quel nuovo nome sarebbero stati drastici. Mi avrebbero infatti eliminato le visite dell’intero corpus elettorale, maschile e femminile, eccezion fatta per un gruppo di squinternate minorenni, che una sera si presentarono pensando che ci fosse una selezione per una cena ad Arcore.
“Dai, entriamo!” Troncai così ogni ulteriore considerazione e discussione, che a nulla avrebbero condotto, e appetito l’avevo anche io, corroborato dallo sferragliamento meningifero del tentato precedente lavoro. Mi misi a preparare, senza alcuna cura, tanto il Folle si sarebbe comunque lamentato. Nel mentre, il nostro si produsse in un discorso così strampalato, nel senso sintattico associativo e di intelligibilità, per giunta di durata cubana, e così puntellato di intercalari incomprensibili, immagini palesi di un imbarazzo sotteso, e costellato di così tante deviazioni inconcludenti, che non posso fare altro che riassumervelo. Dapprima si lanciò in una esegesi spietata dell’opera omnia di Anna Rollina, quella che si è “inventata” Arri Potta. Su tutto ebbe da ridire, in termini di falsità e banalità rappresentativa dell’ontologia profonda e delle manifestazioni correnti del maghetto, da lui considerato, comunque e senza appello, un coglione. E poi questa commercializzazione estrema del personaggio: “Perdio, noi maghi non siamo gente venale!”. Invece la cara Anna era riuscita a far soldi anche vendendo i fazzoletti da naso utilizzati sul set del film. La filippica di Arnolfo era di tipo circolare con rinforzo, nel senso che procedeva per giri di parole, e ad ogni giro si inastava ed infiammava sempre di più. Diceva che c’era in ballo l’onorabilità della sua e delle altre Congreghe, non si poteva turlupinare così il pubblico, non era forse questo un palese caso di plagio? (A proposito, è di ieri la notizia che Michael Jackdifiori ruberebbe le canzoni di Albanale. Quel ghigno ebete da contadino falso e riposato, peraltro sua unica vera produzione artistica, non glielo plagia di certo nessuno. Ma come avrà fatto a beccare la Romana?). Dalla voce di Arnolfo, impastata dalla colazione in corso, cui sembrava non avesse alcuna intenzione di volere dare requie e quindi di terminare, ed interrotta da mugolii e rutti vari, traspariva una inequivocabile malcelata invidia, che ebbi la sventatezza di puntualizzare, immantinente investito da una corrente di insulti che mi fecero indietreggiare verso i fornelli. Ebbe poi il tempo di annotare sul suo peculiare pentagramma di complimenti le novità della casa. La costosissima lampada artigianale in carta di riso e ferro battuto, secondo lui fatta di bottiglie dell’Acqua Silva riciclate e comprata al mercatino dei cinesi per euri tre virgola quarantanove. Gli adesivi con tanta cura apposti a nascondere le magagne dei mobili, orribili. Il pavimento in salita, le mattonelle della cucina storte, e perché non fai un arco in cartongesso tra le due stanze, e questo, e quello…Fece finalmente silenzio. L’imbarazzo si tagliava a fette. Si stava per arrivare al dunque, meno male per tutti, e soprattutto per le mie provviste, che stavano scemando a vista d’occhio sotto le insaziabili fauci del Folle. Smise di mangiare, e per l’intanto si caricò una pipa a forma di coniglio bianconero, che portava sotto al cappellone, con una strana polvere, frammista a lordure ambientali di vario tipo. Alla prima boccata esplose in un attacco di tosse che fece rimbombare le pareti, gli si rivoltarono gli occhi all’indietro (come quella volta che Beppe aveva mangiato i funghetti magici durante la settimana psichedelica, e mi si rovesciò in trance sull’uscio di casa, ed io: “beppe, beppe…” E lui: “sto bene, sto bene…) ed ebbe un vistoso barcollamento. Non emise fumo dagli orecchi, questo no, non esageriamo. Ma ci mancò veramente poco.
La stanza dove dormiamo è bassa, con un tot di minuscole finestrelle. Da una parte ci sono due stuoie consumate e sbrindellate, dall’altra il posto per il fuoco. Senza camino. La sera si accende e ci affumichiamo come lasche rosolate. Il fumo risparmia solo i primi quaranta cm dal suolo, ed è in questo spazio che ci si acquatta, si conversa e si vive. Nella stanzetta accanto dorme l’allegra combriccola dei baba. Stamane mi ha svegliato un lungo coro di tosse a più voci. Oramai desto sono andato a curiosare. Era in corso una prolungata sessione di cylom, i quattro erano immersi in una densa nuvola, in piena tossizione. Ho l’azzardo di dire che forse il cylom mattutino non è il massimo per la tosse. Mi ribaltano l’assunto. Il cylom guarisce, attraverso la tosse che ti ripulisce il polmone. Illuminati!
Fine seconda divagazione.
Atterriamo dunque, ed andiamo al grano. In breve, la situazione era questa: la SAS (Sovrana Assemblea dei Sordiampici) aveva all’unanimità, con l’unico voto contrario di Tarsilla Melensovich, per così dire “condannato” Arnolfo Bandarello, di età imprecisata, al matrimonio. Era una condanna nel senso nobile del termine, se mai si può trovare nobiltà in una simile pena, ovvero nata come modo per redimere la supposta colpa di Arnolfo, consistente nell’assoluta insopportabilità del suo carattere. Assai supposta, secondo lui. “Si, ogni tanto mi arrabbio lievemente…” Non riuscii a trattenermi: “Lievemente sto par di ministeri…”. Talmente assodata invece per la sua genia di svitati, che perfino sua madre aveva votato a favore. Anche l’amore materno nel mondo magico conosce i suoi limiti, viene da dire. La madre, era veramente ansiosa di levarselo di ‘ulo, sfinita da anni di rimbrotti e sfuriate. Il bello della storia deve però ancora arrivare, lorsignori, fermi tutti, dove andate? Secondo le usanze della Congrega, la sposa deve essere scelta a giudizio insindacabile dalla madre del marito (vediamo se una volta tanto non mi impantano nelle parentele). E l’arpia arrugginita di sua madre (parole testuali di Arnolfo), non era andata a scegliere, tra tutte le bimbe rinvecchiate in età da marito, proprio la Tarsilla Melensovich, quella rotondetta baffuta di incerte origini balcaniche? La più insopportabile di tutte. Non stava mai zitta, parlava anche nel sonno, con voce gracchiante, e gracchiante sia di giorno che di notte… Mangiava come un ossesso, prima nel piatto altrui, e poi nel suo, con lei c’era da morire di fame…Russava come un pellegrino sul Camino de Santiago, e cacciava peti che neanche nella Somma Accademia del Peto di Torcigliano… “E’ dai tempi delle scuole elementari che mi perseguita, mi ha attaccato dei bottoni da capogiro, mi sabotava la PSP e mi intasava le linee dei piccioni viaggiatori…”. La descrizione delle virtù della pulzella continuò ancora a lungo, ed è uno dei ricordi più esilaranti che conservo nel mio cuore. Segretamente a voi, per ispregio. Il secondo punto del problema era che, una volta fatta la scelta materna, “ir-re-vo-ca-bi-le”, ribadì Arnolfo sillabando chiaramente, il matrimonio risultava sì combinato, ma lungi dall’essere realizzato. Il compimento del quale comportava difatti che il soggetto procedesse ad un canonico corteggiamento della soggetta, fino all’avvenuta di lei conquista, ci volesse il tempo che ci voleva. Con questo procedimento si volevano contemperare i pregi delle usanze orientali ed occidentali, le prime come è noto basate sulla scelta della sposa da parte dei genitori, la seconda sul supposto libero arbitrio degli individui. Che producono comunque l’istesimo risultato, ovvero una serie infinita di beghe. Il matrimonio è l’arte di risolvere in due i problemi che uno da solo non avrebbe mai avuto, non so più chi l’ha detto. Non mi fraintendete, vi prego. Non è che io sia contrario al matrimonio, tutt’altro; sono solo contrario al mio. Ultima cosa, affatto secondaria: Arnolfo poteva sì rifiutare di sposarsi, e su questa sua ferma intenzione non sussistevano dubbi, visto la serie di improperi di categoria A che accompagnarono questa parte del relato, ma, udite udite, solamente dopo avere comunque, ed in maniera inoppugnabile, proceduto alla conquista della Tarsilla. Questo era il cuore del problema, questa l’afflizione del mago. Cambiale sonora, che era l’affettuoso nomignolo affibbiato a Tarsilla dagli scapoloni della Congrega, aveva preso molto a cuore il suo compito “rieducativo”. Era una occasione formidabile per vendicarsi finalmente di quel maleducato di Arnolfo che, guarda caso, anche lei non aveva mai potuto sopportare. Lo aveva obbligato a 47 visioni di ciascuno dei film di Arri Potta, a lei piaceva molto. “Le fa tenerezza, quell’idiota, figurati…”, costretto ad accompagnarlo in interminabili visite ai negozi di tutte le città e paesi nel raggio di 23 km, “Il bello è che non compra mai nulla, quella lesina. Entra, fruga in ogni dove, chiede il prezzo di tutto, e dopo un par d’ore esce tra gli sguardi disperati dei commessi…” E così via. Il discorso, al massimo della confusione, si dipanava in un sottofondo misto di immensa disperazione, quella di Arnolfo, e di irrefrenabile scompisciamento, il mio. Talmente assorto lui, meno male, da non accorgersi del mio atteggiamento. Solo quando insinuai la possibilità di ricorrere alla magia, gli rifiorì una potente selva di insulti in gola, che pronto mi rovesciò addosso: era ovvio, che vado a pensare, la magia, in questo affare, era assolutamente bandita. Sua madre, l’arpia arrugginita, l’aveva pure costretto, oltre che a odiate quotidiane abluzioni, mal accettate arrivando lui da un ritmo di lavaggio semestrale, a frequentare un corso di “Imbrocco creativo e buone maniere”, in quel di Arcore (avrà qualcosa a che vedere con Gemonio, mah!), tenuto da uno strano stalliere dagli occhiali a specchio, lì assunto non per la sua valenza equestre, ma per l’agenda piena di numeri di pulzelle dalla facile cessione dello spicchio. Arnolfo si trovava come in un vicolo cieco, bendato in una notte senza luna. Questo era quanto. O almeno quanto io riuscii a decifrare in quello sfogo torrenziale.
L’unica sua speranza, diceva, riposava su di un testo di tal Rodolfo Lavandino, il cui titolo e contenuto non ebbe ovviamente la gentilezza di specificare, e che aveva cercato ovunque senza trovare.
Approfittai di un attimo di pausa per manifestare dubbi e timori: “Ed io cosa c’entro, o ingiusto allaccatore di insonnie? Non penserai mica che voglia, possa, o debba, scegli tu, aiutarti?”. Arnolfo pronunciò qualche parola sottovoce, e poi alzò a palla il volume: “Scansafatiche imperiale! Smetti di stressarmi con l’insonnia…devi solo accompagnarmi alla biblioteca, credo che lì ce ne sia ancora una copia…almeno lo spero”.
Lo condussi quindi verso il bagno.
“Come mai questo bagno così pulito?” – ebbe subito a notare il Folle appena entrati, gettandomi uno sguardo enigmatico, innaffiato da una consistente punta di sospetto.
“Beh, ogni tanto tocca – dico io con aria falso indifferente – ma lasciamo perdere che è meglio…”
Pronuncia la sua formula, apre la porta magica, si introduce nel passaggio e stavolta scivola subito, partendo gambe all’aria modello gatto, con la schiena a rimbalzare sugli scalini …tabang sei, tabang, sette, tabang otto… Fine della scala. Seguì il consueto splash cosmico nell’argicostolato di benzolaterite.
“L’uomo è l’unico animale che inciampa due volte nello stesso ostacolo!” Imposto così la mia beffa.
“Uomini non ce n’è più – esplode secca la sua replica dal sotterraneo – Animale tu, invece, ed anche grande ostacolo. Taci, razza di deficiente cubico, e levami di qui. Affanculo quel rimastone di Arnoldo e le sue pozioni!”. Non appena lo sollevai dalla tinozza, il mago cominciò però a grattarsi il testone, ed a guardarsi intorno. “La vasca non era qui, l’altra volta, altro che animale che inciampa ecc... Qualcuno l’ha spostata”. Evidentemente assalito da un qualche dubbio, partì a razzo e sparì dentro quell’ambaradan di scaffali. Ne riemerse dieci minuti dopo, rosso come un tramonto del Bengala, ed incazzato come una biscia. Aveva in mano un bigliettino con scritta biro: “Troppo facile, furbino!” “Io lo strozzo, chiunque sia, ma fatevi i fattacci vostri nella vita…”. Rimase un istante bloccato sulla parola, e si girò lentamente verso di me, squadrandomi in maniera pericolosa. Quindi riprese: “Il bagno pulito…capisco, capisco…Dimmi caro, è per caso venuto a trovarti qualcuno/a, negli ultimi tempi?” “Lasciami pensare – indugio io – è passato don Botta, raccoglieva firme per sostituire l’acqua santa con il vinsanto, poi il postino nuovo (quando c’è un postino nuovo, la prima volta mi consegna la posta a casa; la seconda, e le successive, arricchisce il campionario dell’umana genialità applicata ad evitarsi la famosa strada), due ciui smarriti, maschio e femmina, con il maschio in perenne tentativo di monta, e la femmina scoppiolando canonicamente ad ogni assalto…”
“Stoppati, cretino, sai bene chi intendo…” – sbottò l’impaziente.
“Ah, è vero, dimenticavo. Una sera di maggio ero seduto, ozioso, ad osservare il lavoro, laborioso, delle api, perlomeno in famiglia qualcuno che si da da fare, quando mi è arrivata, poco prima di cena, una tipa sconosciuta. Un bel pezzo di sgnacchera, caro mio…”
“E tu, ovviamente, l’hai fatta entrare?”
“O Bandarello, qui le donne conosciute non vengono mai, e le sconosciute ogni tre eclissi totali di sole, che voi, che me la facessi scappare? Certo che l’ho fatta entrare. E l’ho pure invitata a cena e, mentre lei parlava e parlava senza accorgersi di altro, ho anche pulito il bagno ed acceso il fuoco”.
Strani scherzi gioca, anche ai più puri, l’arrapamento inconscio.
Strani scherzi gioca, anche ai più puri, l’arrapamento inconscio.
“Poi cosa è successo?”
“Ma saranno affari miei?
“No no, questi sono pure i miei”. Il suo “Continua!” risuonò per la stanza come un ordine senza possibilità di replica.
“Poi siamo passati davanti al fuoco, conversando…ah, mi ha fatto bere un’acqua strana, acqua brillante, mi pare si chiamasse…”
“Acqua diamante, deficiente – corresse subito – anche noi ne facciamo uso per lavare le biciclette, perché non le arrugginisce…ma vai avanti!”
“Il successivo drink è stato a base di Fiori di Bacca, mi pare si chiamasse. Notevole, davvero, soprattutto la base di ottimo rhum giamaicano. Mi stavo già apasciando, quando quella mi ha stranamente chiesto notizie del mio angelo custode e…”
“Liudmilla Tilisciava – gridò interrompendomi bruscamente, con un tono di voce che mi trapanò gli orecchi – Me lo sentivo che c’era lei di mezzo, quell’inossidabile tegame rizzac…. Addio il mi’ libro…” Non esplose subito, solo perché la sua curiosità infantile era troppo forte: “Come è finita, come è finita, dimmi” “ “Le ho risposto che il mio angelo custode se ne trovava beato a scanneggiare sulla nuvoletta di San Canuto, come da accordi tra noi intercorsi, che lui si fa gli affari suoi, ed io lo chiamo quando io decido, e questa è la parte a mio vantaggio, che lui viene solo se ne ho veramente bisogno, e mi toglie dai guai senza menate da grilloparlante. Lei mi ha guardato con un aria un po’ delusa. Quindi ha chiesto dove era il bagno. Ed io, non mi succedeva da otto anni, lo dovresti sapere bene tu, mi sono addormentato peso. Al mio risveglio lei era sparita, c’era solo una scia profumata nell’aria, ed un biglietto. Ti amo ma ho tanto da fare. Questo è tutto.”
Arnolfo poté quindi esplodere. Degli insulti piovutomi addosso, dimenticherò gli intercalari, e citerò solo quello introduttivo: “Immenso fesso all’ennesima potenza. Primo perché non l’hai zipillata. Secondo perché hai pulito il bagno, che era l’unica cosa, il bagno sporco intendo, che per la sua schifiltaggine congenita l’avrebbe tenuta lontana dalla porta magica, terzo perché ti sei fatto fregare il libro. Quarto: sono nella merda…torniamo su, almeno mangio qualcosa”. Non ebbi il coraggio di replicare niente, da tanto che il Bandarello era avvilito. Per la prima volta da quando lo conoscevo, lo vidi silente e non adirato, e quasi, dico quasi, rilassato. Ma forse era solo sgomento e rassegnato.
Terza ed ultima divagazione. Semiseria.
Si è soliti dire che nella scrittura la finzione assurge a rango di realtà, mentre la stessa diviene allo stesso tempo finzione. Non ho ben capito cosa voglia dire. Per quanto mi riguarda, comunque, tutto ciò che ho sopra scritto è assolutamente vero. Su quello che segue, vi concedo qualche dubbio. Nel discorso sulla verità dei fatti non è di troppo ricordare che si parla sempre della nostra personale verità, quella assoluta essendo, cara Liudmilla, nei cuori di pochi eletti che si guardano bene dal divulgarla.
Ora, è più che lecito supporre che coloro i quali hanno avuto la pazienza di leggere sino a questo punto la nostra storia, si aspettino per essa un degno finale. So quindi di darvi un immensa delusione nell’annunciarvi che questa vicenda non ha una fine. Né bella né brutta, né originale né commovente, semplicemente non ce l’ha. Ovviamente la fine dovrebbe riguardare la successiva fase corteggiante di Arnolfo, ed i conseguenti sviluppi, con eventuale matrimonio eccetera eccetera. Il fatto è che da quel giorno non ho ancora rivisto il mago, e chissà se mai lo rivedrò, cari lettori, ed io pure ho dovuto ingoiare il rospo e conservare le mie, che sono le vostre, domande e curiosità insoddisfatte. Certo, avrei ben potuto inventarmela una qualsivoglia fine, d’altronde così fan tutti. Ma avrei coperto con una finzione qualcosa che, sebbene a me sconosciuto, stava realmente avvenendo altrove. E’ questo mi pare mentire consapevolmente (lasciamo subito perdere il relativo paradosso, eh!) e me ne guardo bene. Lungi da me ogni intento riparatorio, concluderò quindi narrandovi le successive 6 ore trascorse con lo svitato di Arnolfo Bandarello, a partire dal nostro ritorno in cucina.
Ora prima. Ingozzamento di Bandarello. L’inappetente mi fulmina le scorte alimentizie. E’ vero che come sempre erano poca cosa, ma ci avrei fatto una settimana buona. Mi secca poi la collezione di vini piemontesi, una bottiglia di latte di nonna, la tintura alcolica di propoli, l’alcol puro con cui preparo la tintura, il contenuto di due termometri ad alcol. Verso la fine, in realtà questa è una ora convenzionale, in quanto durata molto più a lungo, prende l’impaurito coniglio, lo carica con la polvere di prima, aggiungendo altri strani ingredienti, di cui non voglio sapere nulla, accende e passa. Tiro timidamente. Vengo colto da un attacco di tosse a bassa frequenza, tipo il motorino di avviamento di una cinquecento vecchia con la batteria scarica.
Ora seconda. “Questa roba non fa nulla”, sospiro mestamente. Come Beppe, quella volta che lo trovai verso Finistrada, con il corpo ignudo quasi completamente fuori dal finestrino della macchina ferma del Dris, i capelli ritti, la bava alla bocca, un sorriso a trentasei denti e gli occhi ribaltati: “Sono stato a porcini, non ne ho trovati. Ho mangiato l’amanita. Ma non mi ha fatto niente…”.
Ora terza. “Mica male questa roba!” Comincio ad essere un po’ più confuso. Sono sparite le linee circolari, tutti gli oggetti hanno forma triangolare. Mi perdo a guardare il fuoco. Mi sembra di poterci entrare…non c’entro, non vi preoccupate, non sono ancora così lesso. Bandarello è stranamente rilassato. E’ ritto a testa in giù, e le gambe incrociate per aria. Continua a sfumacchiare, ridere, tossire e sputare. Meno male non verso di me.
Ora quarta. Sensazioni panteistiche. Cominciano le gambe. Si disgregano lentamente e si riassorbono nel tutto. Continuano le braccia, poi tutto il resto. Sparisco. Resta solo la coscienza. “Ma che mi ha fatto fumare quel dannato?” Paura totale. Dal profondo (profondo di che, se non ho più un corpo) prorompe una voce saputella che me la mena intorno alla relatività del bene e del male. Il Folle ha intanto smesso di fumare, galleggia nell’aria in posizione orizzontale, con un inamovibile sorriso ebete stampato in faccia.
Ora quinta. Il delirio. Scena prima: le piramidi mi scorrono rapidamente intorno, mentre io fuggo inseguito da una mandria di dinosauri inferociti. Intervallo: recito un lungo sutra in sanscrito. Scena seconda: le piramidi mi scorrono rapidamente intorno, mentre io, incazzato nero, inseguo una mandria di dinosauri. Non so quante volte rivedo questo film, e l’unica cosa che cambia ad ogni visione è il sutra dell’intervallo. Che fosse la pubblicità? Vengo poi esploso in aria. Atterro su una nuvoletta, dove trovo San Canuto, che mi sguarda con un aria a mezzo tra il compassionevole e la presa di giro per la mostruosa lacca. Poco più in là c’è il mio angelo custode, in intima compagnia dell’angelo custode di Liudmilla Tilisciava. Hai capito quel fetente? Mi comincia a girare vorticosamente in testa un refrain: “Gli angeli non hanno sesso, come fanno a fare sesso?” Chiedo di Liudmilla. Me la indicano distrattamente con il dito, là in basso sulla terra, davanti ad un cartello con la scritta “Gemonio”. E’ in compagnia di un tizio inebetito dal Viagra che, a giudicare dalle bischerate che dice, è assai più in botta di me. Bandarello continua a fluttuare. Si alza e si abbassa, muove lentamente le braccia come un maestro d’orchestra, con una grazia davvero inaspettata in un soggetto come lui.
Ora sesta. Il rilassamento. E’ una indigestione di colori, sapori, odori, sensazioni, zanzare. Mi scorre rapidamente intorno tutto l’universo, ed ogni attimo ha finalmente un senso, mi sento felice e pieno di energia. Non durerà. Arnolfo è sparito, era lì, accanto alla lampada cinese, ed un attimo dopo non c’era più.
Da ora settima ad ora imprecisata, comunque qualche giorno dopo. Riposo assoluto. Cado in catalessi, e dormo, dormo, dormo. Mi sveglio riposato e tranquillo come non mi accadeva da secoli.
Sono finalmente guarito dall’insonnia.
Zanzibar, 31 dicembre 2001. Il giorno della fine della fine delle lire, e dell’inizio della fine degli euri.
Francesco, ora me lo stampo e poi vado a leggerlo a letto. Rodolfo
RispondiEliminaFrancesco, ora faccio anch'io come Rodolfo. Ma in un altro letto e in un altro paese. Sara
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