Di seguito è riportato il testo originale della Presentazione tenuta il 22 novembre 2014 in Piazza XX settembre a Bologna, in occasione della Festa degli Alberi.
Stamani siamo
stati invitati ad abbracciare un albero in questa piazza, come segno di amore e
di rispetto per la natura. Questo gesto
mi ha ricordato un avvenimento tragico, rimasto nella storia come esempio di
amore estremo dell'uomo per gli alberi, avvenuto nel 1730 nelle campagne vicino
a Jodhpur, in Rajasthan, India, dove 363
persone della comunità Bishnois, guidate da una donna, Amrita Devi, furono sterminate
mentre abbracciavano alcuni alberi di Khairi (Prosopis cineraria), nel
tentativo di opporsi al loro taglio, ordinato dal maharaj locale per costruire
il suo nuovo palazzo. L’usanza di abbracciare gli alberi è probabilmente molto
antica, ma trae da questo episodio una grande valenza simbolica, che ha portato
questo gesto ad essere adottato da movimenti ecologisti di tutto il mondo.
Indubbiamente stiamo
vivendo in un'età nera per quanto riguarda il nostro rapporto con la natura.
L’avidità, l’ignoranza e la noncuranza dell’uomo stanno distruggendo delicati
equilibri che hanno retto il nostro pianeta per milioni di anni. Per restare
nel mondo degli alberi, ogni anno sulla Terra viene distrutta in maniera
irreparabile una superficie di foresta di oltre 50.000 Km², più ampia della
Toscana e dell’Emilia Romagna messe insieme.
Molti di noi vivono oramai
distanti dalla natura e dai suoi ritmi naturali. Degli alberi e delle piante
non conosciamo più i nomi e gli impieghi tradizionali; abbiamo pure
dimenticato le leggende ed i miti di cui sono stati protagonisti, ed i
profondi significati spirituali attribuiti loro per migliaia di anni
presso tutte le culture della Terra.
Eppure sono le piante che hanno reso e rendono possibile la vita sul nostro
pianeta, ed esse sono state fedeli compagne dell’uomo fino dalla sua
apparizione sulla terra, regalando generosamente una incredibile varietà di
prodotti, consolandoci ed emozionandoci con la loro bellezza.
Quello che propongo
stamattina è quindi un breve viaggio nel mondo dimenticato degli Alberi, tanto
per ricordarci alcune delle tante cose che li riguardano.
Ma andiamo ad incominciare
e lo farò nel più classico dei modi.
"C'era una volta... Un re, diranno subito i miei
piccoli lettori. No ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno".
Credo che tutti abbiano riconosciuto l'inizio di quella meravigliosa favola che
è Pinocchio. Quel pezzo di legno, legno di ciliegio, che trasformato in
burattino dalle abili mani di mastro Geppetto, parla, si muove e si commuove,
combina i peggiori malestri, per diventare poi alla fine della storia un
normalissimo bravo bambino. Ecco, tra i tanti messaggi celati in questa favola,
c'è anche questo: quello di una sostanziale unità tra uomo e albero, basata su
una stessa essenza di fondo, che fa sì che un legno di ciliegio si possa trasformare in bambino. Di certo il
Collodi non inventa niente di nuovo, ed attinge ad una tradizione che si perde
nella notte dei tempi.
Virgilio, nell'Eneide, ci racconta che la zona ove sarebbe
sorta Roma era coperta da foreste di quercia, dove vivevano fauni e Ninfe,
insieme ad una razza umana che era nata
dai duri tronchi di rovere, una specie di quercia.
San Teodoro di Amasea, soldato romano vissuto nel quarto
secolo, trovandosi a dover fronteggiare con pochi guerrieri un gran numero di
nemici, riuscì addirittura a trasformare in soldati gli alberi di un intero
bosco, ed a vincere la battaglia.
Nel Popol Vuh, il libro sacro degli indios Quiche del
centro America, l'uomo viene fatto nascere da una pianta di mais, non una
pianta qualunque, ma la pianta che è sempre stata alla base dell'alimentazione
di questi popoli.
In India l'umanizzazione delle piante è giunta ad un punto
tale che ancora oggi a livello tribale si celebrano matrimoni formali non solo
tra alberi, ma anche tra una donna o un uomo, ed un albero.
Nella mitologia degli antichi popoli scandinavi, gli dei
crearono il genere umano da due ceppi d'albero, e chiamarono l'uomo ask e la
donna embla, nomi che indicavano rispettivamente il frassino e l'olmo. Quando
arriverà il crepuscolo degli dei ed il mondo finirà, e scompariranno dei ed
umane, rimarrà solo un grande albero, che conserverà al proprio interno gli
unici due esseri rimasti vivi, un uomo ed una donna, da cui si originerà di
nuovo l’umanità. Questo albero ha il nome di Yggdrasil, ed è forse il più
conosciuto tra gli alberi mitologici. Yggdrasil è un enorme frassino che cresce
al centro dell'universo e collega tra loro tutti i mondi. La sua chioma si
perde altissima nell’Asgard, il regno celeste degli dei; il suo tronco è
collegato alla terra di mezzo, la residenza degli uomini, attraverso l'arcobaleno
Bifrost. Ha tre enormi radici che lo sostengono: una di esse nasce nella dimora
inferiore degli dei, la seconda nella casa dei giganti di ghiaccio, gli Asi,
che furono prima della stirpe umana, e la terza nel regno dei morti. Da ognuna
delle tre radici sgorgava una fonte: la prima dava origine a tutti i fiumi che
scorrono sulla terra, la seconda era in grado di conferire a coloro che
bevevano la sua acqua scienza e saggezza, ma il suo accesso era proibito da un
custode. La terza, infine, era la più sacra delle tre fonti, la fonte del
destino, presso cui vivevano le tre Norne, chiamate Destino, Esistenza e
Necessità, tre anziane signore che tessevano la trama della vita di uomini e
dei, dalla nascita alla morte. E l’acqua di questa fonte conferiva anche
l'eterna giovinezza, ed ogni giorno con essa le Norne annaffiavano l'albero per
mantenerlo in vita; era infine presso di lei che si radunavano gli dei per
tenere consiglio.
Yggdrasil costituisce un'immagine perfetta dell'albero
cosmico, una figura simbolica diffusa pressoché universalmente nell'antichità.
L'albero unisce di fatto i mondi sotterranei, dove affonda le radici, con il
cielo, laddove svetta la sua chioma, passando per lo spazio occupato dall’uomo;
combina gli elementi minerali e l’acqua che trae dal terreno, con l'anidride
carbonica nell'atmosfera, trasformando come per miracolo la non vita in vita, e
generando l’ossigeno necessario a tutti i viventi.
I Veda, le più antiche scritture sacre dell'induismo e
dell'umanità intera, svilupperanno una concezione dell'universo diviso in tre
parti: il cielo, la terra e l'aria, tre parti tra loro sovrapposte, ed a loro
volta tripartite, e tutte sorrette dall'albero cosmico, lo Skambha, che viene
così descritto in un versetto dell’Atharva Veda: "E’ lo Skhambha
che mantiene immobili il fuoco, la luna, il sole ed il vento, e sostiene
allo stesso tempo il cielo la terra e l'atmosfera immensa, così come le sei
vaste direzioni dell’universo".
Ma Yggdrasil rappresenta anche l'albero della conoscenza.
Odino, il padre di tutti gli dei, sacrificherà un suo occhio per poter bere
l'acqua della saggezza, e resterà appeso per nove giorni e nove notti ai rami
di Yggdrasil, con una lancia conficcata nel costato, fino a raggiungere la
conoscenza suprema, concessagli sotto forma dell'alfabeto delle rune, in cui è
contenuta tutta la conoscenza dell'universo. Così come in altri miti e credenze
religiose, l'albero diventa simbolo di conoscenza metafisica, ed al tempo
stesso efficace mezzo per raggiungerla.
La stessa mela mangiata da Eva nel paradiso terrestre, e
che provocherà la caduta del genere umano nelle anguste pastoie della vita
terrena, nient'altro era se non il frutto della conoscenza.
Nel Rigveda, il più antico tra i Veda, è un albero di
fico, che vive nel paradiso di Indra, a sostenere la coppa che contiene il
mitico soma, la bevanda che conferiva agli dei la loro immortalità.
Il percorso di iniziazione degli sciamani siberiani si
concludeva con un complesso rituale che
vedeva l'aspirante sciamano arrampicarsi su di un albero di betulla, là dove
entrava in comunicazione con il mondo degli dei e degli antenati, terminando
così il suo apprendistato.
L'albero viene visto come potente mezzo per entrare in
comunicazione con i mondi superiori e, così come facevano gli aspiranti
sciamani, nei più importanti sacrifici dell'antica India vedica, il sovrano
saliva su di una scala in cima al palo sacrificale, lo Yupa conficcato al
suolo, e che simboleggiava uno degli alberi del paradiso, raggiungendo così il
cielo per presentare le sue richieste alle divinità.
Una delle più belle immagini dell'albero della conoscenza
resta comunque l’Albero della Bodhi, un Peepal (Ficus religiosa), sotto
cui Siddharta otterrà l'illuminazione, divenendo il Buddha, il “risvegliato”.
L'albero in questione è ancora vivo, o meglio è ancora vivo il discendente di
questo albero (si ipotizza che sia il quinto od il sesto della serie, ogni
volta riprodotto per talea da quello precedente), a Bodhgaya, in India ed è uno
dei luoghi di pellegrinaggio più importanti per i devoti di fede buddista.
Quest'albero, che la tradizione buddista vuole sia nato nello stesso momento in
cui vide la luce il principe Siddharta, non è un accessorio casuale nel
processo che porterà Buddha a trovare la soluzione al problema della sofferenza
dell'uomo, ma bensì uno strumento essenziale per la conquista della conoscenza,
il solo ed unico luogo dove poteva avvenire la sua acquisizione. Per sette
giorni e sette notti Siddharta se ne starà seduto immobile nella posizione del
loto, ed una volta raggiunto il suo scopo, resterà seduto ancora per lungo
tempo, pieno di amore e di gratitudine per quell'albero che gli ha concesso la
conoscenza. Sarà poi lo stesso Buddha ad indicarlo come rappresentante a tutti
gli effetti della propria persona, come entità a cui i devoti si potessero
rivolgere dopo che lui avesse lasciato la vita terrena.
Comunque sia, ancora oggi tanti asceti indiani, vestiti di
arancione e con lunghissime barbe e capelli, siedono sotto gli alberi assorti
in profonda meditazione. L'albero sembra divenire immagine speculare di colui
che medita ed accompagnare con la salita della linfa dalla terra verso le
foglie immerse nel cielo, il processo alchemico che trasforma le umanissime
pulsioni terrestri nell'unione con i piani alti del nostro essere.
Tornando al nostro motivo iniziale, quello degli alberi
trasformati in uomini, troviamo ovviamente nella mitologia classica anche il
processo inverso, ovvero quello della trasformazione di uomo in albero.
Uno degli episodi più belli e conosciuti è quello
descrittoci da Ovidio nelle Metamorfosi, dove si narra la storia di un giovane
greco di bellissimo aspetto, di nome Cyparissus, e di un grande cervo sacro di
cui il giovane era grande amico, e con cui trascorreva molto tempo. Una mattina
d'estate mentre Cyparissus era a caccia, vide un corpo reso confuso dalla forte
luce del mattino; armò il suo arco, scagliò la freccia ed uccise colui che
altri non era se non il suo amato cervo. Preso dalla disperazione, Cyparissus cominciò a piangere, e non smetteva più,
fintanto che Apollo, colpito da tanto dolore, scese da lui e gli chiese cosa
potesse fare per alleviarlo. Il giovane chiese allora al dio che gli fosse
concesso di poter piangere il suo cervo per tutta l'eternità. Apollo esaudì il
suo desiderio e lo trasformò in albero: le membra di Cyparissus cominciarono a
tingersi di verde, via via che il troppo pianto esauriva al suo sangue; i
lunghi capelli divennero una chioma ispida, sottile ed appuntita, e slanciata
verso il cielo stellato. Apollo gli disse allora: “Ti piangerò per sempre, e tu
piangerai per gli altri, e sarai accanto a chi soffre”.
In questo modo nacque
l'albero del Cipresso, che da allora consola compassionevole i cimiteri: con il suo aspetto immutabile,
la sua forma che ricorda una fiamma verde che arde verso il cielo, rappresenta
la memoria eterna dei defunti.
In effetti gli alberi, che
sembrano morire d'inverno per poi tornare a nuova vita in primavera, non
rappresentano tanto la morte, ma l'infinito ciclo di morte e rinascita insito
nell’ordine naturale delle cose. Ed è questa un’altra figura simbolica
attribuita agli alberi pressoché universalmente.
Esempio
magnifico ne è il Tasso (Taxus baccata), un albero apparso sulla terra
diversi milioni di anni fa, e divenuto oggigiorno piuttosto raro. Tutte le
parti di questa pianta sono velenose, addirittura mortali per gli equini; con
il suo legno elastico e resistente si fabbricavano archi, frecce e lance, e le
punte erano spesse bagnate nel veleno estratto dalla pianta. Per questo l’altro
suo nome comune, tuttora in uso, è quello di albero della morte. Il Tasso fu
albero sacro presso i celti, che lo piantavano in prossimità dei cimiteri,
secondo un'usanza propria anche di popolazioni a loro anteriori. Per le tribù
celtiche esso simboleggiava la morte intesa come momento di passaggio verso una
nuova vita, ed ancora il continuo rinnovamento della vita attraverso la
trasformazione, la porta attraverso la quale si apre la via per l'eterna vita
dell'anima. Nel 1964 venne scoperta nella corteccia del cugino nordamericano
del Tasso (Taxus brevifolia), ma in seguito anche nel nostro, una
molecola molto efficace nella cura del cancro delle ovaie, il taxolo, ed il
cerchio viene finalmente chiuso: anche la scienza è arrivata a considerare il
Tasso come l'albero in cui morte e vita si uniscono.
I fatti accennati finora,
esempi tratti da un campionario infinito di miti ed immagini religiose che
riguardano gli alberi, ci raccontano di un rapporto del tutto particolare tra
uomini ed alberi, e non potrebbe essere altrimenti, visto che alberi e foreste
hanno accompagnato la storia dell'umanità fino dalla sua apparizione sul nostro
pianeta.
Per milioni di anni la
Terra è stata coperta da una immensa foresta, formata da alberi secolari, densa
e spesso impenetrabile, interrotta solo dai deserti, dai ghiacci e dalle acque.
La foresta ed i suoi alberi sono stati la risorsa fondamentale per la
sopravvivenza degli umani, almeno fino all'avvento dell'agricoltura. La foresta
dava riparo ed alimenti, fossero essi gli animali che vivevano grazie ad essa
ed in essa, od i generosi frutti regalati dagli alberi. E con il legno di
arbusti ed alberi si poteva generare il fuoco, la prima ed a lungo unica fonte
di energia, elemento indispensabile per lo sviluppo della civiltà. In fin dei
conti, tutte le età in cui siamo soliti suddividere la storia dell'umanità,
sono state una continua età della foresta, degli alberi e del legno, di cui non
sono rimaste evidenze, visto che perfino il più duro dei legnami destinato a
decomporsi ed a scomparire. Per tutto questo gli storici delle religioni sono
concordi nell’affermare che alberi e foreste siano state tra le prime entità ad
essere rese sacre, ed a divenire oggetto di culto da parte dell'uomo.
Sta di fatto che all'inizio
dell'epoca storica l'albero compare come elemento sacro nei sistemi religiosi
dei popoli più antichi. Dalla civiltà indo pakistana conosciuta come Civiltà
dell'Indo, che fiorì nel terzo millennio a.C., fino ad altre civiltà
contemporanee, quali quella minoica di Creta, passando per la Mesopotamia e la
civiltà di Elam, l'albero appare come simbolo sacro in diversi manufatti, dai
cilindri assiri ai sigilli della valle dell’Indo. Le religioni dell'epoca
sembrano fondarsi sul culto della Dea Madre, colei che incarna l'energia
creatrice e vitale del mondo. L'albero diviene simbolo perfetto per
rappresentarne fertilità e generosità,
e per rappresentare il ciclo della natura che muore in autunno, per
rinascere ogni anno in primavera.
Il ruolo dell'albero come
simbolo di fertilità continua tutt'oggi in India, dove le donne che vogliono
avere un figlio offrono cibo, acqua, incensi e preghiere agli alberi sacri, ma
anche in Europa, nelle tradizioni ancora vive che salutano e festeggiano
l'arrivo della primavera innalzando un albero simbolico, l’albero di maggio,
durante una grande festa popolare. Alcuni anni fa mi sono casualmente imbattuto
in uno di questi riti in Basilicata, nel piccolo paese di Viggianello, sperso
nel parco nazionale del Pollino, dove è conosciuto come “Rito arboreo della
Pitu”. Il mercoledì dell'ultima settimana di agosto gli uomini e le donne si
recano nelle montagne e tagliano un grosso esemplare di faggio, lungo una
ventina di metri, che viene scortecciato e squadrato direttamente in bosco. Il
venerdì mattina viene tagliato e preparato nello stesso modo un grande abete
bianco (anche se oggi, vista la scarsità della conifera in questi luoghi, anche
quest’albero è un faggio). Molti dei partecipanti al taglio si accampano nel
bosco, e passano le notti tra canti, danze ed immancabili abbondanti libagioni.
Il venerdì pomeriggio i due alberi vengono trascinati a valle, trainati da 12
coppie di enormi buoi bianchi, agghindati a festa con nastri e coccarde, lungo
un percorso di alcune decine di chilometri, complicato e duro, ma lubrificato
dallo scorrere di fiumi di vino. Gli alberi raggiungono il paese nel primo
pomeriggio del sabato; gli accompagnatori appaiono in uno stato di eccitazione
che rasenta il parossismo. La domenica, infine, i due alberi vengono innalzati uno sopra l'altro nella
piazza principale del paese. Il fatto che questo rito si compia in agosto, e
non in maggio come avviene analogamente in alcuni luoghi del Nord Europa, è
dovuto al fatto che il “Rito della Pitu” viene fatto coincidere con la festa di
San Francesco di Paola, patrono del paese, che cade per l'appunto l'ultima
domenica di agosto. Secondo un diffuso processo di incorporazione sincretica
nel cattolicesimo di antichi riti pagani.
Durante tutta l'antichità,
ed un po' dappertutto, all’albero viene attribuita la presenza di un'anima, di
una sorta di entità sovrannaturale che lo abita e lo rende vivo. Può trattarsi
dell'anima nobile di una divinità, o di spiriti di creature semi divine quali
le Driadi e le Amadriadi, che secondo greci e romani abitavano nei tronchi di
quercia, o di tutte le categorie di spiriti benevoli, maligni ed addirittura
fantasmi che abitano tutt'oggi gli alberi dell'India, tanto che è fortemente
sconsigliato dormire la notte sotto gli alberi di Banyan, perché ci possono
abitare dispettosi fantasmi, che escono a disturbare i viandanti.
In Africa, i
popoli delle savane credono ancora che negli enormi Baobab risiedano gli
spiriti dei loro antenati.
D'altronde sono
molte le qualità dell'albero che lo rendono simile all'essenza divina. La
lunghezza della vita, sulla terra ci sono alberi che hanno più di 4000 anni,
rende di fatto l’albero immortale. L'ermafroditismo della maggioranza delle
specie vegetali aggiunge un ulteriore suggestione. Con questo carattere la pianta diviene sintesi degli opposti,
viene a simboleggiare l'uno indiviso, il momento precedente alla loro
divisione, divisione tra yin e yang, tra cielo e terra, tra bene e male. E come
per le divinità, la sua vita si spande ovunque, nella terra nell'aria e nel
cielo.
Gli alberi
saranno quindi oggetto di culto presso gli egizi, i greci, ed in definitiva
presso tutti gli antichi popoli della Terra, sacralizzati in quanto attributi
delle divinità a cui erano associati.
Tra tutti i popoli
dell'antica Europa, la sacralità di alberi e foreste raggiungerà la sua
apoteosi tra i Celti, un popolo eterogeneo comparso nell'età del ferro
nell'attuale Svizzera, e che si diffonderà in Spagna, Francia e Gran Bretagna
ed altre parti d'Europa. Gli alberi della foresta divengono simboli e strumenti
della conoscenza iniziatica, luoghi di culto e di insegnamento spirituale,
testimoni delle riunioni tribali e dell'amministrazione della giustizia. In
particolare i druidi, che erano sacerdoti, indovini e poeti, e che derivavano
il loro stesso nome dal nome della quercia, vivevano nel profondo della
foresta, ed all'aperto nel bosco impartivano insegnamenti agli aspiranti druidi
in un processo che durava dai 12 ai 20 anni.
Contemporaneamente in
India, la foresta diventerà il luogo per eccellenza della ricerca spirituale,
dove si ritireranno a cercare il significato della vita non solo gli asceti, ma
anche gli anziani, una volta assolti i doveri familiari.
Il pensiero
indiano all'epoca dei Veda capovolgerà curiosamente la posizione dell'albero, e
lo prenderà come simbolo del divenire della vita e della creazione: "Questo
antico ed eterno albero di Asvattha (Ficus religiosa), porta le sue radici in
alto, ed i suoi rami verso il basso" (Baghavad Gita). I rami
rappresentano tutti i mutevoli dualismi del mondo fenomenico, che intrappolano
nella materia la vita dell'essere umana. Ma l'origine dell'albero, la radice da
cui proviene la vita dell'uomo, è pura, immobile, libera ed immortale, è la
stessa essenza divina.
Cambiamo adesso
completamente punto di vista e spostiamoci negli anni a cavallo tra la fine del
1800 del 1900, che videro svilupparsi l'opera di un eccezionale scienziato di
nazionalità indiana.
Il suo nome era
Jagdish Chandra Bose ed era nato a vicino a Calcutta, nello Stato del Bengala.
Fu una di quelle figure nella storia dell'umanità che hanno avuto la capacità
di precorrere i tempi; le sue opere erano talmente progredite per il suo tempo
da non poter all’epoca essere comprese e valutate esattamente. Per avere una
idea della portata scientifica di questo personaggio, basti ricordare che agli
inizi del 1895 realizzò il primo esperimento conosciuto di trasmissione di onde
radio, e questo ben 10 mesi prima che Guglielmo Marconi si aggiudicasse il
primato di questa scoperta.
Svolse
inizialmente la sua attività di ricerca nel campo della fisica, e dopo una
serie di studi assai sorprendenti sui metalli, si dedicò alla ricerca nel campo
della fisiologia vegetale. Condusse diverse centinaia di esperimenti,
rigorosamente illustrati in diversi volumi, sulle reazioni delle piante a
stimoli esterni, quali onde elettromagnetiche, stress, affaticamento,
somministrazione di sostanze tossiche, ed altro.
Attraverso i
suoi esperimenti, Bose osservò come tutte le parti delle piante si dimostrassero
sensibili ed irritabili, e manifestassero la loro irritabilità con una reazione
elettrica alle diverse stimolazioni. Le loro reazioni erano pressoché uguali a
quelle dimostrate dai muscoli animali sottoposti agli stessi stimoli. Scoprì
che le piante dormivano (ci aveva già pensato anche Linneo, il padre della
sistematica degli esseri viventi, che scrisse un libro sull’argomento), e che
si potevano anestetizzare proprio come gli animali; una volta utilizzò il
cloroformio per addormentare un pino, allo scopo di trapiantarlo.
Bose ideò e
costruì alcuni strumenti che gli permettessero di realizzare esperimenti sempre
più sofisticati. Con una macchina in grado di ingrandire fino a 10.000 volte i
microscopici movimenti delle piante, ed in grado di registrare i movimenti
stessi, Bose dimostrò la somiglianza del comportamento tra la pelle delle
lucertole e delle tartarughe con quella delle bucce di uva, di pomodoro e di
altri frutti ed ortaggi. Sosteneva che gli organi digestivi vegetali nelle
piante insettivore erano molto simili allo stomaco degli animali e che di
fronte alla luce vi erano analogie di comportamento tra le foglie e la retina
degli occhi animali. Dimostrò anche che le piante si affaticavano se sottoposte
a continue stimolazioni, come avviene nei muscoli degli animali. Facendo
esperimenti con la Mimosa pudica, quella pianta le cui foglie si
richiudono poco dopo che sono state toccate, intuì addirittura caratteri
che che lasciavano supporre la presenza
di un qualche tipo di sistema nervoso. Scoprì che dosi eccessive di anidride
carbonica soffocavano le piante che però, al pari degli animali, potevano
essere rianimate con l'ossigeno. E come per gli essere umani, le piante si
intossicavano se venivano loro iniettate bevande alcoliche.
Con un altro
strumento, chiamato crescografo, inventato nel 1918, fu in grado di registrare
la crescita delle piante ad intervalli di un minuto, studiando le variazioni
sulla crescita stessa provocate da fattori esterni. Notò che la crescita delle
piante poteva essere ritardata, e persino fermata in alcune di esse,
semplicemente toccandole, mentre altre piante, se sottoposte a maltrattamenti,
erano stimolate a crescere più rapidamente. E se la musica stimolava la
crescita, elevati livelli di rumore la rallentavano.
Con tutta la sua
opera, Bose sembra abbia voluto abbattere le rigide barriere che dividono il
mondo inorganico, da quello vegetale ed animale e, in piena sintonia con la
filosofia indiana, dimostrare l’unità che sta alla base di tutte le mutevoli
sfaccettature del nostro universo. L'opera di Bose incontrò in ambito
accademico sia entusiasti sostenitori che accaniti oppositori, ma le sue
rivoluzionarie teorie non sono mai state confutate.
Circa 50 anni
dopo un altro scienziato, senza dubbio meno quotato di Bose, propone al mondo
intero delle stupefacenti teorie sulla sensibilità delle piante. Si tratta di
Cleve Backster, statunitense, uno dei massimi esperti dell'epoca di macchina
della verità, e che lavorava come addestratore all'uso della stessa presso la CIA
e l'FBI.
Nel 1966 Cleve
Backster così, quasi per gioco, decide di applicare la macchina della verità
alla foglia di una pianta di Dracaena (Dracaena massengeana), il comune
tronchetto della felicità. La macchina della verità è uno strumento che
funziona applicando due elettrodi al soggetto indagato, i quali fanno
transitare nel corpo una debole corrente elettrica. Uno strumento apposito
registra per mezzo di una ago su un supporto di carta le variazioni che la
corrente subisce all'atto della risposta, in reazione ai mutamenti di stato
emotivo del soggetto. Dopo una serie di tentativi inutili di registrare una
qualche variazione in seguito alla somministrazione di acqua alla pianta, forse
un po’ deluso ed arrabbiato, Backster pensò di bruciare la foglia dove stavano
attaccati gli elettrodi. Ancora prima di mettere in atto il suo proposito, il
disegno tracciato dall’ ago ebbe un brusco cambiamento e fece uno scatto
prolungato verso l'alto. Si allontanò quindi per andare a prendere dei
fiammiferi ed al suo ritorno notò un'altra improvvisa impennata sul diagramma,
e la cosa si ripeté quando accese i fiammiferi e li avvicinò alla pianta, senza
però bruciarla, ed ancora in seguito ad altri tentativi. Fintanto che la
reazione della pianta ai suoi tentativi, palesemente finti, cessò del tutto.
Era come se la pianta riuscisse a percepire le reali intenzioni di Backster,
come se riuscisse a leggergli nel pensiero.
Cercando di
ridurre al minimo le influenze ambientali, Backster continuò le sue prove con diverse specie di piante,
ottenendo sempre simili risultati. Da una serie di numerosi esperimenti ricavò
la convinzione che le piante possedessero una sorta di memoria, e che fossero
in grado di riconoscere le persone.
In una delle sue
prove più famose, registrò le reazioni di un gruppo di piante di fronte alla
morte di alcuni gamberetti, immersi in acqua bollente a poca distanza dalle
piante. Il tracciato dell’ago della sua macchina della verità mostrò una forte
reazione da parte delle piante all'evento prodottosi. Da questo Backster
dedusse che le piante avessero una sorta di sensibilità, realizzata forse a
livello cellulare od addirittura molecolare, in grado di percepire gli stati
d'animo degli esseri viventi che le circondano.
Da tutto il suo
lavoro Backster trasse alcune ipotesi sconvolgenti ed affascinanti: una era
quella che esistessero altri sensi in grado di percepire il mondo circostante,
e che questi fossero sviluppati in tutto il mondo vivente; i cinque sensi di
cui sono dotati gli animali e l'uomo, sarebbero in realtà dei limitatori di
percezione, che di fatto riducono l'infinita gamma di eventi che accadono
intorno a noi in ogni momento. L'altra fu quella di postulare l'esistenza di
centri di memoria efficaci anche al di fuori del cervello; secondo questa ipotesi
il cervello, più che un organo di semplice memorizzazione, sarebbe un organo di
commutazione di memoria accumulata anche a livello cellulare. Secondo Backster
le piante ricevono segnali dal mondo circostante e li trasmettono, attraverso
speciali canali, ad un dato centro dove elaborano reazioni di risposta.
Ipotizzò che questo centro nervoso delle piante fosse situato nei tessuti della
radice. Una sorta di sistema nervoso tra virgolette, senza i nervi ed il
cervello delle specie animali, dalla struttura e dal funzionamento sconosciuti.
D'altronde lo
stesso Charles Darwin, il padre della teoria dell'evoluzione, in un libro
pubblicato nel 1880 "Il potere del movimento nelle piante", un
libro rimasto sconosciuto come gran parte dell'opera botanica di questo genio,
scriveva di essersi convinto, analizzando gli infiniti movimenti delle piante (altro
che creature immobili!), che nelle radici ci fosse qualcosa di simile ad un
centro di comando, di simile al cervello di un animale inferiore. Curiosamente,
più di 2000 anni prima, il filosofo greco Democrito vedeva gli alberi come
uomini con la testa conficcata dentro il terreno.
Le teorie di
Backster destarono un'enorme scalpore nell'opinione pubblica americana; di
contro furono poco considerate dall'ambiente scientifico ufficiale, anche se ne
negli stessi anni rigorose ricerche condotte presso la prestigiosa accademia di
scienze agricole Tymiriazev dell'ex Unione Sovietica confermavano l’esistenza
nelle piante di una raffinata sensibilità.
Le due figure che vi ho
presentato fanno parte di una nutrita schiera di scienziati e studiosi che
hanno osservato le piante in maniera molto diversa da come siamo abituati a
vederle, ovvero come esseri immobili ed insensibili, poste su un gradino
inferiore a quello occupato da animali ed esseri umani. Soprattutto negli
ultimi 50 anni le nostre conoscenze sulle piante stanno però radicalmente
cambiando. Appare sempre più chiaramente la capacità che esse hanno di ricevere
informazioni dall'ambiente in cui vivono, di elaborarle e di trasmettere
segnali e reazioni a tutto l'organismo, in maniera non molto dissimile a quello
che succede nel mondo degli animali e degli uomini. Una sorta di intelligenza,
dalle coordinate e dalle potenzialità sconosciute, diversa ovviamente dall’
“intelligenza” umana, e per questo oltremodo affascinante.
E con questi
discorsi torniamo praticamente al punto di partenza: esiste una unità di fondo
tra gli alberi e gli esseri umani, ed oggi anche la scienza sembra
confermarcelo.
Per concludere
questa presentazione, vorrei lasciarvi con il racconto di un breve aneddoto.
Durante uno dei miei primi viaggi in India stavo passeggiando di buona mattina
nelle campagne della pianura gangetica. Ad un certo punto giunsi ad un enorme
albero di Neem, una pianta che in India è considerata sacra, anche per le sue
miracolose proprietà terapeutiche. Sul terrapieno circolare che circondava la
base del suo fusto, c'era un vecchio seduto
che scrutava attentamente la chioma della pianta. Dopo i saluti di rito,
gli chiesi cosa stesse facendo. Il vecchio, senza distogliere l'attenzione
dalla chioma, mi rispose che stava aspettando che aprisse la farmacia. Rimasi
sorpreso e pensai di aver capito male visto che eravamo in aperta campagna. Mi
misi a scrutare anch'io la chioma della pianta, e c'era un'allegra compagnia di
scimmie rosse che imperversavano tra i suoi rami, saltando e cogliendo non so
cosa. Tutta quella confusione fece sì che si staccasse un grosso ramo. Il
vecchio, con insospettabile agilità, si alzò di scatto e, prima che il ramo
toccasse terra, lo raccolse. Ne staccò accuratamente le foglie, le mise in una
borsa, e sorridendomi se ne andò.
FANTASTICO ARTICOLO CHE CI PORTA ALLA COMPRENSIONE DELL'UNIONE DI TUTTO L'UNIVERSO.
RispondiEliminaAL RISPETTO DI OGNI FORMA DI VITA, POICHE' TUTTO E' VIVENTE