Murale lungo il Gange a Varanasi |
Dopo questa breve introduzione, ho inserito il testo integrale della descrizione di un Albero sacro dell’India, risalente al 1623, opera del viaggiatore Pietro della Valle. Si tratta di un Albero di Banyan (Ficus benghalensis) che Della Valle incontra poco fuori la città di Surat, in Gujarat, non lontano da dove vive oggi il Banyan conosciuto come Kabir Vad (vedi Post:I Grandi Banyan dell’India). Non si tratta quasi sicuramente dello stesso albero, distanza temporale a parte, visto che Kabir Vad vive, rispetto a Surat, sulla riva opposta del fiume Narmada e Della Valle, solitamento prolisso, non avrebbe tralasciato certo di descrivere questo particolare. Pietro della Valle (1586 – 1652) fu uno scrittore romano di nobile famiglia; nell’anno 1614, in seguito ad una delusione amorosa, partì in nave da Venezia per un viaggio che lo porterà fino in India, attraverso il Medio Oriente, la Mesopotamia e la Persia, e che lo vedrà di ritorno a Roma solamente 12 anni dopo, nel 1626. Della Valle raccontò il suo viaggio in una serie di 54 lettere inviate all’amico Mario Schipano. Il testo qui presentato è tratto da una ristampa del 1843, intitolata, a proposito di prolissità, “Viaggi di Pietro Della Valle il pellegrino, descritti da lui medesimo in lettere familiari all’erudito suo amico Mario Schipano, divisi in tre parti cioè: la Turchia, la Persia e l’India. Colla vita e ritratto dell’autore”. La lettera è la prima della terza parte, quella intitolata “L’India ed il ritorno in patria”.
Dallo scritto traspare un malcelato disprezzo verso una cultura di cui credo che il buon Pietro, forte della convinzione sulla indiscussa superiorità del pensiero e della religione europea, avesse compreso ben poco. Nonostante ciò la descrizione dell’albero sacro, e dei riti popolari compiuti al suo cospetto, risulta un documento storico estremamente interessante, che attesta di fatto l’immutabilità nel tempo di riti ed offerte, perlomeno da quell’epoca ai nostri giorni. Alcuni passi sono anche divertenti, in particolare verso la fine, dove Della Valle risolve il mistero della “fecondazione assistita” (dall’ albero stesso, o da chi per lui). Ho volutamente mantenuto la disquisizione, invero poco pertinente, intorno al seme della pianta di Betel (Areca catechu), da cui il mitico Pan, che gli indiani masticano continuamente, sapendo di fare cosa gradita ai molti che conoscono ed amano l’India.
“Da un’altra parte della città, pur fuori dal recinto delle case, in un largo che vi è, si vede un grande e bell’albero, di quelli che io vidi già nelle marine della Persia presso ad Hormuz, e che scrissi allora chiamarsi colà lui, ma qui lo chiamano ber (antico nome del Banyan). I gentili del paese l’hanno in gran venerazione, per la sua grandezza ed antichità: e lo visitano, e l’onorano spesso con le lor superstiziose cerimonie, come caro, al creder loro, e dedicato ad una lor dea che chiamano Parveti (Parvati, consorte di Shiva); la quale tengono esser moglie di Mahadeu (Mahadeva, uno dei nomi di Shiva), uno de’ maggiori lor numi, da me, se non fallo, altre volte mentovato. In una banda del tronco di questo albero, poco alto da terra, hanno scolpito rozzamente un circolo rotondo, che non ha forma alcuna di vero viso umano; ma, secondo la lor grossolana applicazione, il viso del loro idolo rappresenta.
Questo viso lo tengono tutto tinto di un colore incarnato acceso; e ciò per rito a loro sacro di religione: nel modo appunto che anticamente facevano anche i Romani, che tingevano la faccia di Giove con minio, conforme Plinio riferisce. Di più sta sempre circondato di fiori, e di quantità di certe foglie che han quasi figura di un cuore, e son di una pianta qui chiamata pan, ma in altri luoghi d’India belle. Le quali foglie gl’Indiani usano tutto il giorno di masticare, o sia per sanità, oper trattenimento e per delizia; in quella guisa che altri popoli, per somiglianti cagioni, ovvero, al parer mio piuttosto per vizio, van pigliando ad ogni ora il tabacco. Dell'uso di queste frondi, così frequente appresso gl' Indiani, dentro alle quali avvolgono un poco di calce fatta di conchiglie marine, ed alcuni piccoli pezzetti di una noce in India assai famigliare, che qui chiamano fovfcl (sic ?!?), ed in altri luoghi areca: frutto secchissimo, che dentro par quasi tutto legno, e per esser di natura stringente, l'hanno per buona a fortificare i denti. Le quali cose tutte insieme, oltre il confortativo dello stomaco, hanno anche un certo piccante che a loro par gustoso; ed in masticandosi, tingono stranamente di rosso i labbri e la bocca, il che a loro pur piace, ma a me non già, perchè si vede che non è naturale. E come di queste cose lungamente insieme masticate ne inghiottano solo il sugo, sputandone il resto, e nelle visite, se ne dia subito agli ospiti, nè si faccia mai conversazione o passatempo alcuno senza esse: chi ne avesse curiosita potrà vederlo più a pieno negl' istorici naturali che hanno scritto de'semplici pellegrini dell'India, e particolarmente ne'libri di Garcia da Orta, di Cristoforo da Costa e di Nicolò Monardi, tradotti tutti insieme in latino da Carlo Clusio Atrchate. In che solo voglio aggiungere, che stava io con gran desiderio di provar questo masticatorio indiano, per la fama che ne era arrivata fin in Persia, massimamente per bocca di un nostro religioso italiano che era stato in India, il quale mi diceva che era cosa, non solo di grandissima sostanza e molto utile allo stomaco, ma di più ancora di gusto esquisito, Però, dopo che io l'ho provato, del resto non so; ma quanto al gusto non ci trovo gran cosa nè farei molta differenza dal masticar queste foglie del pan, o quelle de'nostri cedri. Ma per tornare al racconto, quei fiori e foglie che stanno intorno al viso dell'idolo, segnato nell'albero, cambiandoli spesso, ve li tengon sempre freschi; e quelli che di tanto in tanto si levano, si danno per divozione alle genti che a visitarlo concorrono. Nella stessa rozza scoltura di viso umano, banno fatto certi occhi d'argento e d'oro, con qualche gioia, messivi da persone che, per virtù dell' idolo, pazzamente han creduto di essersi risanate dal mal d'occhi. Innanzi all'idolo, dove è fabbricato un poggiuolo alto alquanto da terra, assiste di continuo alcuno de' lor gioghi, che fra gl' Indiani sono certa specie di romiti; e talvolta ho veduto starvi anche una donna. la alto vi è appeso un campanello: quelli che vengono a far le loro sciocche divozioni, toccano prima il campanello, quasi chiamando con quello l'idolo che gli senta: poi fanno la loro adorazione, che comunemente è di stendere in giù, quanto si può, amendue le mani giunte a guisa di orare; e poi, alzandole a poco a poco, avvicinarsele alla bocca in modo di baciarle; e finalmente alzarle pur così giunte più in alto sopra la testa. Il che si fa solo agl'idoli ed a cose sacre; perchè agli uomini e fin ai re la medesima salutazione, che essi in lingua persiana chiamano letlim, e nella loro indiana nimbata, con l'istesso atto la fanno tuttavia con la sola man destra. Fatta la già detta cerimonia, alcuni orano solamente in piedi; altri, alle orazioni, aggiungono anche prostrazioni, stendendosi con tutto'I corpo boccone per terra, e poi levandosi; altri toccando solo la terra con la testa e con la fronte, e facendo altri simili atti di umiltà. Dopo i quali girano intorno l'albero, chi una e chi più volte; e poi spargono innanzi all'idolo, chi granelli di riso, chi olio, chi latte ed altre cose tali, che sono le loro obblazioni e sacrificii senza sangue; poichè di sparger sangue, neanche per sacrificio, non hanno uso; e l'ammazzare ogni sorta di animali, l'hanno per gran peccato. Danno inoltre, quei che possono, qualche limosina alla persona che assiste al servigio dell' idolo; da quella, in contraccambio, ricevendo dei Gori e delle frondi, che presso all'idolo sono stati; le quali cose pigliano con gran divozione, baciandole e ponendosele, per atto di riverenza, sopra la testa. Accanto al tronco dell'albero, da una banda, vi è fabbricata una cupoletta molto piccola, con entrata di un finestrino assai angusto. Dentro, non vidi che vi fosse: intesi ben esser fama che vi entrassero talvolta alcune donne che non facevano figliuoli; le quali, dopo esservi state, per la virtù di quel luogo riuscivano gravide: ma come nelle religioni false ogni cosa è impostura, v'è opinione che i custodi dell'idolo, in questo particolare, facciano di belle burle,o ingannando diverse giovani semplici, o soddisfacendo ad altre più scaltrite, le quali alle volte fanno ben riuscir gravide, ma con modo naturale, senza miracolo, supplendo essi dentro alla cupola ai difetti de' loro mariti. Vi si vede anche da un'altra parte, pur presso al tronco dell'albero, un legno quadro, poco alto e fitto in terra, nelle cui facce sono scolpite certe figure d'idoli; ed a piedi il terreno è scavato alquanto, come una fossetta o buca, dove similmente alcuni versano latte, olio, e fanno diverse altre obblazioni. Custodiscono con diligenza tutto l'albero, ed ogni suo ramo e foglia, non permettendo che sia offeso nè da animali, ne da uomini, nè che in modo alcuno sia violato o profanato. E raccontano di un elefante che un giorno a caso mangiò una sola foglia di quell'albero; perlocchè, punito dall'idolo, in termine di tre giorni mori. Io ho saputo esser vero che il caso avvenne in questa maniera ; ma si tiene che gli stessi custodi dell' idolo, per riputazione del luogo, avvelenassero l'elefante, o pur l'ammaliassero: nelle quali arti, i gioghi e religiosi de' gentili sogliono esser molto destri”.
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