lunedì 31 gennaio 2011

Storie di Alberi: come la città di Atene ebbe il suo nome

Olivo (Olea europea)
Una volta edificata la città che sarebbe divenuta universalmente conosciuta come Atene, si pose la questione dell'attribuzione di un nome. Presumendo l'importanza che essa avrebbe avuto nella storia, si confrontarono due dei dell'Olimpo, Poseidone, dio del mare, e Atena, dea della sapienza (ma anche della guerra), i quali aspiravano ambedue ad esserne il patrono. Gli dei decisero quindi che colui tra i due che avesse fatto agli ateniesi il dono migliore, avrebbe vinto la disputa, ed imposto il proprio nome. Poseidone battè il suo tridente al suolo, e da quel punto uscì il cavallo (altre versioni narrano che dal suolo scaturì una sorgente, però di acqua salmastra, che non fu molto apprezzata dai cittadini), Atena colpì il terreno con la sua lancia, facendovi nascere la prima pianta di olivo. Gli ateniesi reputarono l'olivo un dono più utile del cavallo di Poseidone, e posero quindi alla città il nome della dea.
Voglio credere che i cittadini abbiano preferito l'olivo anche perchè simbolo di pace, contrapposto al cavallo, allora prevalentemente strumento di guerra. Ma, come ci insegna la Storia, nutro forti dubbi che la ragione della scelta sia stata proprio quella.

In Greek legend, Poseidon and Athene disputed after whom the nameless, newly founded city of Athens should be named. The gods decided that the one who gave the best gift to mankind, should have this honor. Poseidon struck the seashore with his trident and there sprang forth the horse; Athene smote the ground with her spear and the olive tree arose. The gods decreed the Athene's gift, the olive as a symbol of peace, was infinitely better for humanity than Poseidon's horse, an emblem of war, and the new city was named Athens.

martedì 25 gennaio 2011

"L'albero che fa piangere lacrime di gioia a qualcuno, è per gli occhi di qualcun altro solamente una cosa verde nel mezzo della via. Qualcuno vede la Natura ridicola e deforme, e qualcuno non la vede affatto. Ma agli occhi dell'uomo di immaginazione, la Natura è l'immaginazione stessa."
            William Blake, 1799.

Il Faggio Pellegrino. Le Roncacce, Cutigliano (Pt)
The tree which moves some to tears of joy is in the eyes of others only a green thing that stands in the way. Some see the nature all ridicule and deformity, and some scarce see nature at all. But to the eyes of the man of imagination, nature is imagination itself.
William Blake, 1799

domenica 23 gennaio 2011

In fin dei conti, dicano un pò lorsignori, con i loro lumi e la loro esperienza, dove si trova la verità, la completa verità? Qual è la morale che si deve dedurre da questa storia, a momenti ribalda e volgaruccia? Si trova, la verità, in quello che avviene tutti i giorni, nei piccoli eventi quotidiani, nella meschinità e noia della vita della stragrande maggioranza degli uomini, o non risiede essa invece nei sogni che ci è dato sognare per fuggire la nostra triste condizione? Come si è elevato, l'uomo, nella sua camminata per il mondo: attraverso la razione quotidiana di miseria e pettegolezzi, o per mezzo del libero sogno, senza frontiere né limitazioni? Quale forza ha condotto Vasco de Gama e Colombo sul ponte delle loro caravelle? Chi dirige la mano degli scienziati che muovono le leve per mettere in moto gli Sputnik, creando nuove stelle e una luna nuova nel cielo di questo sobborgo dell'universo? Dove si trova la verità, mi rispondano, per favore: nella piccola realtà di ciascuno o nell'immenso sogno umano? Chi la conduce per il vasto mondo, a illuminare il cammino dell'uomo? L'eccellentissimo Giudice, o il poverissimo Poeta? Chico Pacheco con la sua integrità, oppure il Comandante Vasco Moscoso de Aragão, Capitano di lungo corso?  (Rio, gennaio 1961)

Jorge  Amado, ultimo paragrafo del romanzo "Due storie del Porto di Bahia"

Alta Langa 2

venerdì 14 gennaio 2011

Canzone del Meo


Il componimento poetico sotto riportato (e che continua in altra pagina, data la sua lunghezza) è una testimonianza dell'antico mestiere del carbonaio, un tempo, e per molti secoli, assai diffuso tra le genti dell'Appennino pistoiese.  Questi uomini, ma spesso anche donne e bambini, vivevano undici mesi l'anno in rustiche capanne allestite nel mezzo del bosco. Il loro letto era fatto di legni coperti di felci e foglie. Il loro cibo quotidiano consisteva nella polenta di granturco, accompagnata da una acciuga o da un'aringa, talvolta da un pezzo di pecorino; il pane ed il vino apparivano solo durante le feste comandate. Con una abilità che sconfinava nell'arte, essi allestivano le "carbonaie", destinate a trasformare legna di faggio, di leccio e di altre essenze in ottimo carbone, che per molto tempo costituì una tra le più importanti fonti energetiche disponibili. Si trattava di un lavoro massacrante, da cui traevano profitto principalmente i ricchi che compravano i boschi e che li affidavano poi ai carbonai, ai quali, a fine stagione, rimanevano in tasca  solo pochi spiccioli. Nei mesi estivi, il lavoro si svolgeva sulle montagne del pistoiese, ma d'inverno erano costretti a cercare zone dal clima più mite, ed allora migravano in Maremma (il famoso canto popolare che la maledice, trae origine da questi migranti), ma anche in Corsica ed in Francia. Delle squadre assegnatarie dei vari lotti di bosco, faceva quasi sempre parte un ragazzo di dieci/dodici anni, a cui toccavano  i compiti "più leggeri", e che ovunque veniva chiamato "Meo". Curiosa l'origine del nome, del  quale peraltro resta traccia anche in diversi toponimi, e che si vuole derivato da San Bartolomeo, protettore dei bambini. In pistoiese arcaico, "sanbartolomei" erano definiti i bambini birichini, dispettosi e particolarmente vivaci.
Con l'avvento del carbone fossile, e con la diffusione di massa dell'energia elettrica, ebbe fine, nell'immediato dopoguerra, l'epopea dei carbonai. Ma nelle montagne pistoiesi, è ancora possibile incontrare qualche vecchio che, spinto dalla nostalgia e dalla passione, allestisce una piccola carbonaia per uso casalingo.
La Canzone del Meo è composta di strofe di otto endecasillabi ciascuna, con rima AB AB AB CC; il primo verso della strofa successiva fa rima con l'ultimo verso della strofa precedente. E' questa la struttura tipica dei canti "in ottava rima" i quali erano improvvisati la sera "a veglia" da poeti popolari, spesso analfabeti. Nascevano così sfide, in cui i poeti si alternavano, declamando una strofa ciascuna, ed  utilizzando la desinenza dell'ultimo verso  per cercare di mettere in crisi l'avversario. 

La canzone è tratta dal bellissimo e poetico libro di Aimo Mucci "I Forzati della Foresta" (Gli Ori, Pistoia 2006. ISBN 88 7336 220 6 )  



 Canzone del Meo

Se Apollo vorrà farmelo un favore
Di mettermi qualcosa nella testa
Vi dirò quando feci il servitore
A un carbonaio dentro la foresta
Chiamarmi del mio nome non occorre
Ma bensin Meo la tradizion l'attesta
Certo fu qualche gatto montanino.

Avevo dieci anni quando per destino
Rimasi senza babbo e senza dote
Ero tra i figli sempre il più grandino
Mamma malata e lavorar non puote
Vedevo i giorni sempre più vicino
E la miseria sempre più mi scuote
La vita mi faceva la struttura
Di parer di Pinocchio la figura.