La valle di Wan |
Wan è un
piccolo villaggio di montagna adagiato sui primi contrafforti himalayani, nel
recente costituito stato indiano dell’Uttarakhand. Il paese si trova in una
conca riparata, nella parte alta della valle, diviso in due da un ruscello
canterino, il Bedni Ganga. Le piccole vie lastricate in pietra, i
ponticelli di legno, le case dai tetti di ardesia, intonacate ad argilla e
colorate con tinte pastello ocra, giallo e bianco, alcune con lunghi balconi di
legno al primo piano. Certe porte e finestre appaiono molto antiche, sempre in
legno, sapientemente lavorato. Le costruzioni si dispongono generalmente a
gruppi, intorno ad una comune aia centrale.
Una piccola piazza rettangolare nella parte alta, con il tempio dedicato
a Shiva; nella parte bassa campeggia invece un enorme albero di noce, oramai
secco da tempo, che stende i suoi lunghi e grassi rami a coprire un buon numero
di case. Ci sono solo tre “negozi”, che vendono riso, farina, zucchero,
sigarette ed altri generi di prima necessità: tutti preparano anche il chiai
(tè all’indiana, con latte e spezie), in uno a mezzodì è possibile mangiare
qualcosina.
Il crinale sopra Wan |
La strada, sterrata, è arrivata solo da qualche anno,
prima si fermava ad una decina di chilometri, e si arrivava solo a piedi, da
questa o dalla valle adiacente. Era molto meglio. A meno di non avere robusti
paraocchi od una distrazione totale per i fatti esterni. Nell’ultimo tratto si
aprono infatti una serie infinita di frane, ed il cuore balza in testa al solo
vedere i dirupi sottostanti. Tralasciando poi
buche, cunette, tornanti ed affini. Comunque sia, i 90 chilometri che lo
separano da Tharali, il paese in fondo valle dove si ritrovano asfalto e
mezzi pubblici, necessitano di una intera giornata per essere percorsi, cambiando
tre jeep private che svolgono servizio di taxi collettivo. Stipate fino
all’inverosimile, anche 25 passeggeri dove ce ne entrerebbero 5, arrancano con
il muso sollevato dal peso, ostaggio delle buche e di pneumatici prossimi al
parto, da tanto che sono consumati.
La corrente elettrica è arrivata anch’essa pochi anni fa,
ma da tre anni si è guastato l’impianto a valle, e la sera si illumina ancora
con candele e lumi ad olio. L’assenza di luce artificiale rende il cielo di
notte uno spettacolo unico di miliardi di stelle luccicanti; la Via Lattea è
così chiara che sembra di toccarla. (In Hindi la Via Lattea viene
curiosamente chiamata Akash Ganga,
ovvero il Gange del Cielo).
Qualcuno ha montato delle curiose celle solari portatili, che bastano
per un paio di lampadine e per ricaricare il cellulare. Anche quassù tutti
possiedono ormai un movil: il fatto curioso è che non c’è assolutamente
linea, e quindi viene usato solo per ascoltare la musica. Sparata ad un volume
inimmaginabile, si sente dalla valle accanto, i nostri umili cellulari
impallidiscono al confronto.
Campi con Amaranto a seccare |
L’economia si
basa su un’ agricoltura esclusivamente di sussistenza. Siamo intorno ai 2.500
metri di altitudine, e quindi non sono molto le specie che crescono: le colture
principali sono rappresentate dal grano nel periodo invernale, a cui succede
l’amaranto nel periodo estivo. In ottobre, Il contrasto tra il colore dell’
amaranto già tagliato ed affastellato, la terra scura, e l’azzurro carico del
cielo è un incanto per gli occhi ed una gioia per il cuore. Si coltivano poi
patate, fagioli e pomodori. Basta. Poche le mucche allevate, un po’ più
numerose le capre, buone per il latte e, di tanto in tanto, per la carne.
Dall’esterno, si porta solo riso, zucchero e lenticchie, saltuariamente un po’
di banane.
I campi sono
vicini al paese, e si lavorano ancora con i buoi e con rudimentali aratri di
legno; la pendenza dei versanti ha costretto i contadini a faticose opere di
terrazzamento. L’unica sostanza impiegata è il letame, portato, spesso a lunga
distanza, sulle spalle in ceste di vimini. Ai lavori campestri partecipano
tutti, anche i bambini, se non vanno a scuola tutto il giorno, sennò prima di
andare e quando escono, oppure nei (numerosi!) giorni di vacanza. Chi lavora
per conto terzi, artigiani, braccianti, legnaioli, guadagna da uno a tre euro e
mezzo al giorno.
Da qualche anno
stanno arrivando anche i turisti, poiché da Wan parte il trekking che porta
prima a Bedni Bugyal, uno stupendo anfiteatro circondato dalle cime innevate
dell’Himalaya, e quindi a Rup Khund, un laghetto glaciale sopra i 4.500 metri.
L’impatto sull’economia locale è comunque pressoché nullo, perché i gruppi sono
organizzati altrove, e giungono qui con le loro guide e portatori, indipendenti
in quanto al dormire ed al mangiare. Fortunatamente, anche l’impatto sulla
cultura locale è altrettanto nullo.
Sullo stesso
percorso, ogni anno si svolge un pellegrinaggio-processione, a cui partecipano
persone giunte da tutta la vallata. In questa occasione, una murti
(statua) della dea Kali, viene portata a spalla dal fondo valle fino a
Bedni Bugyal; ogni dodici anni il pellegrinaggio giunge fino a Rup Khund, dopo
quattro giorni di cammino tra canti, accampamenti nel bosco, libagioni, e largo
uso di sostanze inebrianti. Leggenda vuole che la processione sia guidata da un
misterioso caprone. Sulle rive del laghetto, sovrastato dalle vette del Trisul
(7.120 m) e del Nanda Ghunti (6.309 m), alcuni scheletri umani di
origine sconosciuta attendono tranquilli trekkers e pellegrini.
Un ripido sentiero
collega il paese al crinale che ad oltre 3.000 metri separa la valle da quella
del Nandakini River, portando ai piccoli villaggi di Sunol e Kunol. La testata
della valle è coperta da boschi di querce, di cui si raccolgono le foglie per
alimentare gli animali, di rododendro, noci, ontani e conifere himalayane
(cipressi, abeti, picee, tassi e pini). Come combustibile si raccoglie la legna
secca a terra, o quella dei grossi alberi che ogni tanto cadono.
A Wan vivono
circa 500 persone, di cui quasi la metà sono bambini in età scolare. Ci fu un
tempo in cui queste terre facevano parte del Regno dei Gurkha, il regno delle
montagne, che abbracciava l’Himalaya indiano, il Nepal, ed arrivava a lambire
il Tibet: di questa unione la popolazione serba ricordo nei tratti del volto,
molto più asiatici che indo-ariani. Gli uomini portano pesanti giacche di lana
a manica lunga, color marrone, oppure beige o bianco (il bianco indiano,
“sporco” di default anche da nuovo); i più anziani indossano delle pseudo
tuniche marrone scuro, legate in vita, e che calano fino al ginocchio. Le donne
hanno vesti coloratissime e sono cariche di gioielli d’oro, unica intangibile
ricchezza familiare, tramandata di generazione in generazione.
Quassù, in una
Natura grandiosa e meravigliosa, il tempo si è veramente fermato. Non saprei
dire quanto, è come trovarsi in un’altra epoca. La vita scorre lenta, seguendo
i ritmi della natura e delle stagioni. C’è tempo per tutto, c’è tempo per
vivere e per condividere la propria vita con gli altri. Tempo per fare una
partita a carte di soldi, per esempio, a casa del maestro di scuola, finita la
quale ognuno conta le proprie monete e tutti hanno vinto! La gente lavora, ma
non c’è affanno, fatica, ma non c’è stress. La forza della tradizione mantiene
una società coesa da una serie di comuni valori ancestrali: la devozione per le
divinità, l’amore per la natura e per la terra, l’accettazione paziente e
serena della propria condizione, i doveri di solidarietà ed ospitalità. Tutti,
fin dal bambino più piccolo, mi salutano giungendo le mani all’altezza del
cuore. In quella che noi considereremmo povertà, traspare invece una immensa
nobiltà, espressa anche dal portamento eretto, dal sorriso e dalla gentilezza,
dalla compunzione o curiosità. In
questi luoghi, non a caso residenza degli dei hindu, sembra di percepire
l’esistenza di una posizione naturale dell’animo, positiva e luminosa, e facile
da raggiungere.
A Wan ci son
tre scuole, una pubblica e due private, che coprono il ciclo di studi
inferiori. La maggioranza dei bambini le frequentano, anche se molti
abbandonano dopo le prime classi, una volta imparato a leggere ed a scrivere.
Il mio karma da
prof in fuga, mi ha portato una mattina ad entrare in una di queste scuole.
Appena entrato, il folto gruppo che faceva lezione nel cortile, si è alzato in
piedi ed ha intonato una canzone. Mi sono commosso. Ad un cenno del maestro,
terminata la canzone, si sono rimessi a sedere in un silenzio sconosciuto nelle
nostre classi. Ho avuto un attacco d’invidia. I bambini sedevano per terra a
gambe incrociate, appiccicati l’uno all’altro, con dei minuscoli banchetti
davanti; alcuni avevano dei volti stupendi, le bambine indossavano tutte le
stesse divise celesti e bianche. Mi hanno guardato seriosi, pieni di curiosità
e timore. Qualcuno ha accennato un sorriso, ma solo il giorno successivo mi
rivolgeranno la parola, con qualche domanda in inglese.
Voglio dedicare
idealmente a ciascuno dei meravigliosi bambini di Wan un secolare cipresso
della foresta che si trova sopra il paese, con l’augurio che come cipressi
possano crescere forti e robusti e vivere a lungo, ma soprattutto essere sempre
retti come i loro fusti.
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