martedì 12 novembre 2013

Sogno di un giorno di inizio Inverno




Esistono dei luoghi incantati laddove a volte, d'improvviso, il tempo si ferma. In effetti il tempo non si muove mai, è il continuo agire della vita a darci la sensazione che passi, è la mente che struttura e divide le esperienze in passate e presenti, che ci fa sognare quelle future. Oggi mi sono ritrovato in un bosco, un antico grande bellissimo bosco, dopo quasi cinquant'anni dall'ultima volta che vi ero entrato. Allora ero un piccolo bambino, guardavo molto lontano, il tempo mi aveva già ingannato. Quelle pendici corte e ripide, coperte di uno spesso manto di foglie di faggio. Ed io su uno slittino, in piena estate,  sdraiato a bocca in giù, e via, scendi e sali, la sana incoscienza dei giorni perduti. Lo penso ora, e tanti ricordi affiorano, ma questo non è importante. Perchè oggi non ho riconosciuto niente, non ricordavo niente, non scorrevano lacrime. La natura era possente, aveva il fiato sospeso, forse una rabbia domata, le alte cime degli alberi confuse con le basse nebbie, quell'immobilità eterna, i giovani alberelli che un giorno prenderanno il posto del Re del Bosco, e di tutta la sua corte. I miei alberelli di allora sono enormi, ma non li riconosco. E' un solo grande corpo mistico, che cambia continuamente, rimanendo sempre uguale a se stesso. Io non mi sono mai mosso da qui. Ho radici vere, saldamente piantate in questa terra, che si spingono sempre più a fondo, ad esplorare le profondità del mistero. Come un Faggio, nudo di foglie e con il tronco mutato dalla pioggia, come un altissimo frondoso Abete, che mi ripara dalla pioggia. Una sensazione stupenda e terribile, ispiegabile ed incomprensibile. Di avere tanto camminato, su tante strade del mondo sconfinato, senza essermi mai mosso veramente da questo luogo, che tanto conosce di me e dei miei sogni. Perchè, in effetti, il tempo non si muove mai.

Arnolfo Bandarello

 

domenica 27 ottobre 2013

Il Matrimonio di Merisana


 Larice in estate. Parco del Gran Paradiso

Un tempo lontano, sull'altopiano del Lastoi de Formin, nei pressi di Cortina, vivevano le Ondine, abitatrici di fiumi e boschi. La loro Regina si chiamava Merisana ed il suo regno si estendeva dal monte Cristallo fino alla montagne azzurre dei Duranni. Merisana era bellissima ma, nonostante possedesse tutto ciò che si può desiderare, era infelice al pensiero della sofferenza che opprimeva troppe creature di questa terra. Un giorno il Re dei Raggi, passando per quei luoghi, vide Merisana e se ne innamorò subito, e dopo solo sette giorni le chiese di sposarlo. La fanciulla acconsentì alle nozze, a condizione che il Re donasse la felicità a tutti gli esseri viventi: non doveva essere più abbattuto nè un singolo albero, nè ucciso un solo animale, e nessuno, uomo donna o bambino, si sarebbe più dovuto lamentare a causa della sofferenza. 
Il Re dei Raggi si consultò con i suoi saggi consiglieri, i quali gli risposero che la cosa non era fattibile, e questo riferì alla Regina. Lei chiese allora che almeno nel giorno delle sue nozze, tutti sulla Terra potessero essere felici. Ma neanche questo desiderio appariva realizzabile. Merisana, alquanto rattristata, si rassegnò a limitare ancora la sua richiesta: "Mezzogiorno è l'ora che più mi piace. Ci sposeremo a mezzogiorno, ed almeno per un ora tutti saranno felici: uomini ed animali, alberi e fiori"
Il Re non poteva chiedere di più, così mandò notizia a uomini, animali, alberi e fiori che il giorno dopo ci sarebbero state le nozze e che ogni pena sarebbe stata alleviata. Tutti si rallegrarono e per gratitudine le piante fecero sbocciare i fiori più belli, e gli uomini e gli animali li raccolsero per portarli a lei. I fiori e le fronde furono così tanti che non si sapeva più dove metterli; allora due nani della montagna li raccolsero e ne fecero un albero. Fu così che nacque il Larice. L’albero non era però vitale in questa forma, così Merisana si tolse il velo da sposa, di un tessuto fine color verde acqua, e con esso avvolse l'albero, il quale iniziò subito ad attecchire al suolo e ad inverdire.
Tutti si meravigliarono di quell'albero, ed in effetti il Larice è il più strano tra tutti gli alberi. Pur essendo una conifera, in autunno i suoi aghi ingialliscono e cadono come le foglie delle latifoglie. Ciò dipende dal fatto che il Larice è stato creato con i rami ed i fiori di tante piante diverse. Quando a primavera si risveglia, si può ancora vedere il leggero velo da sposa di Merisana attorno ai suoi rami, coperti di teneri e sottili aghi.

       Leggenda delle Dolomiti
 
Larice in inverno. Sestriere



giovedì 24 ottobre 2013

La Foresta dei Violini


Foresta di Paneveggio. Sullo sfondo le Pale di San Martino
La Foresta di Paneveggio è uno dei tanti tesori paesaggistici, naturalistici e culturali custoditi dalle Dolomiti. Adagiata sulle pendici superiori della Val di Fiemme e della Valle di Primiero, si estende su di una superficie di 2.700 ettari, compresa tra i 1.450 ed i 2.050 metri di altitudine; amministrativamente ricade nei Comuni di Predazzo, Tonadico e Siror, tutti situati nella Provincia autonoma di Trento. Dal 1967, anno della sua istituzione, fa parte del Parco Naturale Paneveggio Pale di San Martino.
La vegetazione arborea segna il dominio incontrastato, perlomeno fino ai 1.900 mslm, dell’Abete rosso o Picea (Picea abies), con stupendi esemplari, anche plurisecolari, che raggiungono e superano i 40 metri di altezza. Alla picea si accompagna poco Larice (Larix decidua), più abbondante alle quote superiori e, sempre alle altitudini maggiori, il Pino cembro (Pinus cembra), che si spinge fino al limite della vegetazione arborea. L’abete rosso trova qui le migliori condizioni ecologiche per prosperare, e per produrre una discendenza di giovani piantine laddove eventi naturali, o tagli mirati eseguiti dall’uomo, aprendo la copertura del vecchio soprassuolo, ne permettono l’insediamento.

Abete rosso (Picea abies Karst.)
La foresta ha una lunga storia: fu per secoli proprietà dei Conti del Tirolo, come citato in ordinanze forestali del 1651 e del 1698. Nel 1847 Ferdinando I, imperatore d’Austria, riconobbe il diritto di proprietà dei conti tirolesi, stabilendo nel contempo che alcune porzioni di bosco potessero essere dati in proprietà ai Comuni, come risarcimento per gli antichi diritti di servitù. La parte che restò di proprietà tirolese, transitò nel 1919 allo Stato italiano, con il trattato di Saint Germain; nel 1951 la proprietà passò quindi alla Regione autonoma Trentino Alto-Adige, ed infine, nel 1973, con il secondo statuto di autonomia, fu attribuita alla Provincia Autonoma di Trento. Circa 700 ettari di foresta provengono invece dalle proprietà comuni ed indivisibili della Magnifica Comunità di Fiemme, una istituzione politico amministrativa autonoma, del tutto particolare, risalente addirittura al XII secolo. Attualmente, è il Servizio Parchi e Foreste Demaniali della Provincia Autonoma di Trento che ne cura la gestione economica e la sorveglianza, oltre ad occuparsi delle fasi della trasformazione e vendita del legname tramite la segheria demaniale di Caoria. Il legno ottenuto da queste foreste, come da altre, trentine e del Cadore, veniva utilizzato nei cantieri navali della Serenissima Repubblica di Venezia: circa due secoli fa, a causa dell’intenso sfruttamento dei veneziani, la superficie boscata di Paneveggio si ridusse a circa un terzo di quella attuale.

Il Lago di Paneveggio
La Foresta di Paneveggio è conosciuta da quattro secoli come la Foresta dei Violini, perché da alcuni tronchi particolari di abete rosso si ricava il legno con cui vengono costruite le tavole armoniche (la faccia superiore della cassa armonica) dei violini e degli altri strumenti ad arco (viole, violoncelli e contrabbassi), oltre che, sebbene in misura minore, di chitarre e pianoforti. Paneveggio non è l’unico luogo dove si trova questo preziosissimo legno, che è infatti prodotto anche nella foresta di Tarvisio e del Latemar, in alcune località svizzere e dei Monti Carpazi, ed in Germania, nella Foresta Nera e nell’Erzgebirge. Ma la superiorità dell’abete rosso di Paneveggio è sancita dalla scelta dei grandi liutai italiani del ‘600 e del ‘700, primi tra tutti Antonio Stradivari e Nicolò Amati, che con questo legno realizzarono i loro inarrivabili strumenti. Si racconta che Stradivari si aggirasse ogni anno, talvolta in pieno inverno, tra i boschi di Paneveggio, per scegliere personalmente il legno per i propri strumenti, cosa che d’altronde ancora oggi fanno numerosi liutai (parte del legname è infatti venduto direttamente sul letto di caduta, di modo che gli utilizzatori  possano provvedere per conto proprio alla depezzatura ed alla stagionatura del materiale, vaya pignoleria!). Quanto ciò corrisponda a verità, o piuttosto non sia leggenda, non è dato sapere: una delle poche evidenze è riportata da Aldo Zorzi nel suo libro “Strenna Trentina”, dove narra un aneddoto che avrebbe coinvolto un suo antenato. Pare che il Maestro nella primavera nel 1719, mentre si recava a Paneveggio per una delle sue periodiche visite, si trovasse a passare per la località di Bellamonte, quando vide dei muli che stavano trasportando delle travi destinate alla costruzione di una baita. Avendo intuito che una di quelle travi aveva una qualità musicale eccezionale, fermò gli animali, e chiese al contadino di vendergliela. Il contadino sul momento non voleva privarsi di quel trave, che aveva già gli incastri per la sovrapposizione, e che gli serviva subito. Ma Stradivari insistette tanto che convinse l’uomo a venderglielo, pagando un bel gruzzolo di lire veronesi, ed a conservaglielo fino all’anno successivo nella sua baita.
Parte della straordinaria qualità musicale dei suoi violini è dovuta al fatto che gli alberi utilizzati erano cresciuti in un'epoca climaticamente assai fredda, molto più di quella attuale, fattore che aveva conferito a quei legni caratteristiche acustiche di assoluta perfezione.
 
Fustaia di Abete rosso. Paneveggio

lunedì 23 settembre 2013

Il Castagno Miraglia


Castagno Miraglia. Camaldoli (Arezzo)

Ad una ventina di minuti a piedi dall’Abbazia di Camaldoli (il comune è quello di Poppi, la provincia Arezzo), raggiungibile per mezzo di un ripido sentiero, si erge questo superbo esemplare di Castagno (Castanea sativa). L’albero campeggia nel mezzo di un ampio pianoro, la località si chiama Metaleto, ed è quasi l’unico superstite di un antico castagneto da frutto, di cui sono ancora visibili le grandi ceppaie morte. Intorno si è fatto il vuoto per una decina di metri, aiutato anche dall’opera dell’uomo, che ha provveduto a cingerlo con uno steccato di pali, ovviamente di castagno. E’ conosciuto come “Castagno Miraglia”, in onore della contessa Elena Mazzarini Miraglia, moglie del commendator Nicola Miraglia, che fu direttore generale del Ministero dell’ Agricoltura alla fine dell’ottocento. Si racconta che la nobildonna avesse fatto mettere un piccolo tavolino e due sedie all’interno della grande cavità interna dell’albero, e che vi trascorresse lunghe ore a ricamare. Il tavolino è rimasto a lungo all’interno della pianta, ed è stato tolto solo al momento della costruzione del recinto. Il Castagno Miraglia ha una circonferenza alla base di circa 12 metri (8,8 ad una altezza da terra di 1,3 metri, laddove si misurano normalmente gli alberi), ed una altezza di quasi 20 metri. Come detto, il tronco presenta un’ampia cavità al suo interno, che si spinge ad un’altezza di una decina di metri. L’età è alquanto incerta, e gli sono attribuiti dai 300 ai 500 anni. La sua chioma è assai rada, formata da pochi rami secondari, sviluppatisi dal vecchio tronco; la pianta non sembra essere molto vigorosa, senz’altro molto meno delle foto di fine ottocento che la ritraggono coperta di denso fogliame. 

Castagno Miraglia.  La base del fusto

Castagno Miraglia. Porzione media del tronco
Castagno Miraglia. Particolare del fusto
Castagno Miraglia. Dentro il fusto

mercoledì 24 luglio 2013

lunedì 22 luglio 2013

L'Olmo di Casa Mordini


Olmo Montano ed Oratorio della Madonna di Montenero. Casa Mordini, Pievepelago (MO)

Con i 470 anni di età che gli sono attribuiti, l’Olmo Montano (Ulmus glabra Huds.) di Casa Mordini è considerato l’Olmo più vecchio d’Italia, ed uno dei più vecchi in Europa. Non solo, poiché le sue dimensioni, 6,80 metri di circonferenza per 25 metri di altezza (anche se ho trovato discrepanze sui dati relativi), ne fanno probabilmente anche il più grande esemplare della specie nella nostra penisola.

Il nostro albero vive nel Comune di Pievepelago (provincia di Modena), a circa 200 metri dalla rotabile che sale verso il Lago Santo, appena oltrepassato il piccolo nucleo abitato di Tagliole, in una minuscola borgata che prende il nome di Casa Mordini. E’ uno dei 150 alberi italiani considerati di eccezionale valore storico o monumentale nel Censimento degli Alberi Monumentali C.F.S. del 1982.

L'Olmo di Casa Mordini visto da ovest
L’Olmo, sottoposto ad intervento fitosanitario nell’anno 2008, appare vigoroso ed in buone condizioni di salute. A sud dell’Albero, oramai attaccata al fusto, si erge una piccola Cappella, recentemente restaurata, risalente al 1719 e dedicata alla Madonna di Montenero. A circa un paio di metri da terra, il tronco principale si suddivide in alcuni fusti secondari.

La popolazione italiana del genere Olmo è stata nell’ultimo cinquantennio quasi annientata da una malattia conosciuta come Grafiosi dell’Olmo, diffusa anche nel resto d’Europa e nel Nord America, che risparmia solamente gli individui giovani. L’agente della malattia è un fungo Ascomicete, Ophiostoma ulmi, che si installa nei vasi che conducono la linfa alle foglie, impedendone il passaggio, e causando il disseccamento anche dell’intera chioma, oltre che dei rami e dell’intera pianta. In questo contesto, l’Olmo di Casa Mordini, non colpito dalla malattia, riveste un’importanza ancora maggiore.

Oratorio della Madonna di Montenero. Interno



 
Olmo di Casa Mordini. Vista est
P.S. 2020 - Il signor Roberto Mordini, proprietario del terreno ove sorge l'Olmo, e che si occupa con passione della tutela fitosanitaria dell'albero, mi ha scritto per specificare che l'età attribuita di 470 anni è una stima basata su formule dendrometriche (La dendrometria è la disciplina che studia la misurazione dei vari parametri degli alberi, quali altezza, età ecc,). L'albero è sicuramente presente dai tempi della prima casa edificata nel piccolo borgo, risalente, da una iscrizione sulla stessa, al 1666.

martedì 28 maggio 2013

Dal Diario di un Tree Haunter




Dopo tanto disquisire di Alberi e dintorni, è giunta l’ora di raccontarvi qualcosina sui retroscena di questa insana attività, che consiste nell’andare a zonzo per il mondo alla ricerca di alberi particolari per qualche carattere, da godersi in proprio, e da fotografare per gli altri. Credo che in inglese ci sia anche un nome per questa passione, quello di “Tree hunter”, il cacciatore di alberi, io preferirei “Tree haunter”, il frequentatore di alberi, ma in italica lingua mi sta bene “Cercatore di alberi”.

Dunque, come dice il mio saggio amico Rodolfo “In ogni posto del mondo dove sono stato, o assai vicino, c’è sempre un albero che è il Più: il più grande, il più vecchio, il più storto”. In effetti quasi ogni paese ha il suo “albero”, che è un po’ come l’immancabile scemo del villaggio, a cui innanzitutto si vuole un gran bene, perché allieta le giornate popolane. Ma ogni villaggio è anche convinto che il suo scemo sia, per l’appunto, il più scemo di tutti, cosa che raramente si dimostra veritiera. Quando si giunge sul posto, molto spesso l’albero non presenta niente di particolare. Anche se ogni individuo, scemo normale od albero che sia, ha la sua bella individualità, degna di nota e di rispetto. Comunque sia, intanto c’è da trovarlo, l’albero. I più famosi sono segnalati, evidenziati, balaustrati, risaltati in ogni modo, e non c’è verso di mancarli. Contraltare: immancabile fiumana umana circostante, con cani al seguito e bambini allo schiamazzo, bugigattoli che appestano l’atmosfera di miasmi hotdoggosi, la parola silenzio che scompare financo dalla memoria. Non resta che dimenticare le foto, ed aspettare la notte, perché con la solitudine l’albero timidamente mostri di nuovo la sua magia alle stelle, alla luna, ed a quel citrullo assiderato dell’Ayappa. Alcuni alberi purtroppo non ci sono più, e la gente, ammesso che li conoscesse, non sa della loro dipartita, così che dopo ore di avvicinamento ci si trova tristemente davanti ad una ceppaia tagliata, o ad un moncherino bruciacchiato (notevole però quello di Sequoia gigante nel Sequoia National Park, negli USA, dove un mattacchione californiano ha appeso un cartello con su scritto “George W Bush”). Altri, ed in particolare alcuni di quelli nella lista degli “Alberi monumentali d’Italia”, non li ho mai trovati. C’è un olivo millenario in Maremma, di cui non rivelo il nome, per non passare da fesso (arrivasse qualcuno: “Toh, ma è facilissimo da trovare, basta…”), alla cui ricerca mi sono dedicato come scusa per fuggirmene dal mare ogni volta che mi ci hanno portato, e che continua a sfuggirmi.

(Mi si conceda una breve nota: l’italica penisola è paurosamente carente di alberi antichi. Ce ne sono, è vero, la scienza forestale li chiama “alberi vetusti”, sparsi in qua e là, ma sono pochi. E mancano completamente i boschi secolari: in Italia non ci sono boschi più vecchi di 250-300 anni, eccezion fatta per qualche castagneto da frutto. Bene, non resta che tagliare meno ed aspettare).

Capita poi che l’avvicinamento si riveli un’avventura. Quando sono andato sulla Serra San Bruno per fotografare i secolari pini loricati, ho chiesto la strada al padrone dell’agriturismo dove dormivo. Lui mi ha addirittura disegnato una mappa dettagliata (!?!); mentre la disegnava, già sapevo che erano guai. Ma ho retto pazientemente il sacco, fino ad una piazzola in una faggeta, dove mi sono abbandonato a sedere, sconfortato dopo alcune ore di vana ricerca del sentiero giusto. In poco tempo sono arrivati: un anziano solo, una famigliola ed una giovane coppia. Tutti sulla strada dei pini, e tutti persi. Dopo un lungo conciliabolo su strade percorse e sbagliate, ce ne siamo tornati indietro tutti insieme. Il giorno dopo sono salito in alto, ho localizzato la Serra, e sono andato a naso. Arrivandoci dopo un cammino massacrante da capre, e per giunta proprio quando cominciava a piovere.

Finalmente trovato l’albero, se c’è sempre, viene la parte della fotografia, ed è tutto un programma. Premetto che sono un fotografo dilettante, nonostante l’anzianità di servizio. La prima macchina fotografica me la regalò infatti mio padre alla fine della prima elementare, come premio per la promozione, era una Kodak Instamatic che conservo ancora. Una volta mi cadde in mare, sviluppai le foto e l’acqua marina mi restituì alcune delle più belle foto che abbia mai fatto. Ho avuto poi diverse altre macchine, durate tutte il giusto, ed intervallate tra loro di diversi anni, periodi in cui abbandonavo l’attività. Una la vendetti ad uno strozzino di Londra per pagarmi il viaggio di ritorno in Italia; ricordo che mi dette esattamente il prezzo del biglietto in treno, più una sterlina. Bontà sua. Un’altra me la rubarono in un negozietto di Puri in India, in una storia tipicamente indiana, che durò tre giorni tra ricerche denuncie e pantomime varie. Un’altra ancora l’ho regalata al mio amico Kanaya di Varanasi, che l’ha sempre tenuta come una reliquia su uno scaffale di camera sua, e non ha più scattato una foto. L’ultima, davvero, mi cadde da un dirupo sulle Alpi Marittime, e dopo tre ore di discesa per ricercarla, il pezzo più grosso che ritrovai fu la cinghia, con due inutili anelli di metallo appesi. Attualmente lavoro con una Canon 5D Mark II (l’ho scelta per il nome da aereo!), che è ottima ma ha due grossi difetti: 1) pesa un tot, e quando la porto dietro a piedi, si fa sentire, eccome, 2) costa un altro tot e, sinceramente, visto e considerato le pregresse esperienze, mi fido molto poco a trascinarla in certi luoghi. In alternativa, quindi, uso una Nikon D80, più leggera e meno costosa. Il cavalletto non lo utilizzo più, dopo interminabili beghe sostenuti ai controlli di sicurezza degli aeroporti. (I quali, aprendo una parentesi, credo fermamente che siano solo fumo negli occhi per il pubblico, per mostrare che si fa qualcosa di tangibile per la nostra sicurezza. In realtà capita che all’aeroporto di Denver mi sequestrino dal bagaglio a mano un cavatappi mignon, e mi lascino tranquillamente un paio di forbici da un 30 centimetri buoni, che peraltro avevo dimenticato di avere).

Premesso ciò, arriviamo al dunque. Le foto di alberi sono sotto il dominio assoluto delle leggi di Murphy. Si vede una splendida giornata, ci si arma e si fanno a volte molti chilometri in auto ed altrettanti a piedi. Si arriva sul luogo e piove. Oppure è così nuvolo che tutto è grigio e indefinito. O è tutto in ombra. Quindi o si desiste, o si aspetta, anche ore, o si scatta come è è. Ogni tanto il caso regala comunque qualche bella foto, per il resto ci si accontenta. Se il tempo fosse ancora bello quando si arriva,  si da il caso che la luce riflessa e diffusa dal cielo e dall’albero vadano d’accordo come cane e gatto. Ovvero, nella maggior parte delle condizioni e delle ore, se si vuole che l’albero non risulti una amorfa massa scura, ma sia visibile, dai giochi dell’esposizione risulta quasi sempre un cielo sbiancato, che mette indicibile tristezza a vederlo. Di contro, per avere un cielo di colore simile al vero, si ottiene, per l’appunto, un albero in cui non si distingue un tubo. Poi si aggiunge il fatto che, chissà come mai, non c’è verso di fare entrare completamente l’albero nell’inquadratura. Passi per le altissime Sequoie, ma anche alberelli modesti scappano sempre dal quadro, da una parte o dall’altra. Impossibile da vicino, ci si allontana allora un po’ dal soggetto, e inevitabilmente, nel mezzo, si frappone di tutto, altri alberi, ovvio se sei in un bosco, o l’immancabile filo elettrico/telefonico, od una strada, o una macchina, od un edificio, oppure l’individuo antifotogenico con maglia a righe, se ne sei fuori. E’ vero che magari basta riprenderne una parte, dell’albero, per evocarne la suggestione. Ma a fini documentari, spesso mi piacerebbe inquadrarlo nella sua interezza, senza dover tagliare testa e piedi, e comunque vorrei poter scegliere. Se ci fosse da fotografare foglie o fiori, di sicuro ci sarà un vento tale da mettere a dura prova la velocità dell’otturatore. Dulcis in fundo, quando si incontrano luci fantastiche ed inquadrature perfette, immancabilmente non si ha la macchina dietro: magari si torna il giorno dopo, alla stessa ora, ed è tutta un’altra cosa. E meno male che non ci sono più le pellicole, che avevano la proprietà magica di finire sul più bello, oppure non erano ben inserite e si scattava a vuoto; per quanto riguarda le batterie, a scanso di ulteriori equivoci, ne ho ben due di riserva.

Per concludere, due brevi note sulle informazioni relative agli alberi indagati, intendo le notizie reperibili in loco, da cartelli e dalla viva voce degli autoctoni. Per quanto concerne le prime,  è incredibile come mentono, in ispecie riguardo alle dimensioni delle piante, e spesso, dove c’è più di un cartello illustrativo, come siano inevitabilmente discordi tra loro.  Volendo, si può sempre misurare la pianta ed eliminare il dubbio. Ma è sull’età che casca il ciuco, sia essa scritta o, peggio ancora, rivelata a voce, ed è un dato spesso impossibile da verificare. Si da il caso che, superata la soglia del verosimile, si arrivi presto ad oltrepassare ogni decenza, ed a sparare età incredibili. Un giorno, sull’Appennino pistoiese, mi sono imbattuto in un bellissimo faggio prossimo ad una casetta. Fuori c’era un anziano che si stava facendo la barba, mirando uno specchietto appeso al faggio stesso. Gli chiedo se sa quanti anni abbia l’albero. Sette od ottocento anni, mi risponde, senza scomporsi e continuando a radersi. Caspita, e come fa a saperlo, interrogo. Vedrai, mi dice lui. Quando era vivo il mi’ poero nonno lui era già qui, ed anche ai tempi del nonno del mi’ nonno c’era di già. E son già un par di centi di anni, il che ci vole a quel punto ad arrivare a settecento? Ragionamento che, ovviamente, non fa una grinza!

Cosa dire infine, questo è ciò che accade ad un Tree haunter. Giustamente, sennò uno si apre un blog di mucche, e morta là!

Salute a tutti e grazie a chi mi segue.

Ayappa

giovedì 23 maggio 2013

Il Pino di Wollemi, l'Albero ritrovato


Giovane piantina di Wollemia nobilis
In un mondo dove l'estinzione di specie animali e vegetali è purtroppo un fatto quotidiano, la scoperta di nuove specie costituisce invece un evento eccezionale, quasi miracoloso se si tratta di alberi, tanto che nel secolo scorso si è verificato solo due volte, nella prima metà degli anni ’40 con il rinvenimento in Cina della Metasequoia glyptostroboides, e nel 1994, con il ritrovamento in Australia del Pino di Wollemi. In realtà per il Pino di Wollemi non si è trattato di una nuova specie, perché di essa si conosceva l'esistenza da alcuni resti fossili, risalenti al Cretaceo, circa 95-125 milioni di anni fa, e si credeva semplicemente che fosse estinta. Ed invece di questa conifera esistono ancora un centinaio di vecchi esemplari, in tre piccoli popolamenti, nascosti nei profondi e stretti canyons delle Blue Mountains, dove sono rimasti celati alla conoscenza dell’uomo, oltre che protetti da incendi ed altre avversità. L’area si trova compresa tra i 650 e gli 800 metri di altitudine, all’interno del “Wollemi National Park”, nell’Australia sud orientale, ad un centinaio di chilometri da Sidney, e la sua esatta ubicazione è mantenuta rigorosamente segreta, come parte della strategia di protezione e conservazione di questo importantissimo patrimonio. Gli alberi vennero trovati durante un trekking da David Noble, una guardia forestale del parco, e classificati con il nome scientifico di Wollemia nobilis, a ricordare sia il parco, che il nome dello scopritore.

La Wollemia è tra le più antiche conifere del pianeta, considerabile alla stregua di un fossile vivente. Nonostante il nome non è un pino, ma una specie molto simile a quelle che compongono il genere Araucaria, ed è stata infatti inserita nella famiglia botanica delle Araucariaceae. Gli esemplari più grandi raggiungono i 40 metri di altezza ed il metro di diametro, con una età di di circa 400 anni. Ha la capacità, alquanto inusuale per le conifere, di emettere nuovi individui dalla base del fusto, e difatti diversi esemplari si presentano formati da più tronchi. Anche il suo modo di crescita è del tutto particolare ed unico. I rami crescono diritti, senza biforcarsi e senza rametti laterali, per diversi anni, finché sulle punte si formano i coni riproduttivi; una volta maturati i coni, i rami cadono interamente, e vengono rimpiazzati da altri, che nascono irregolarmente dal fusto. Anche le foglie verde brillante, assumono sui rami adulti una disposizione originale e di sicuro effetto estetico, disposte in quattro file longitudinali, due complanari e due, poste superiormente, inserite a V. Grazie all’isolamento dei popolamenti, la variabilità genetica dei singoli individui è pressoché inesistente.

Per finanziare la conservazione della specie, favorendo nel contempo la sua diffusione, una compagnia australiana, la Wollemi Australia Ltd, ha ricevuto l’esclusiva per la riproduzione e la vendita del Pino di Wollemi che, sebbene per ora in quantità limitate, è reperibile anche in Europa presso alcuni partners autorizzati. Per maggiori informazioni sulla specie, ed anche sugli eventuali acquisti, si rimanda al sito “The WollemiPine”, dove è anche possibile consultare una bella galleria fotografica.

Fogliame giovanile di Wollemia nobilis

venerdì 17 maggio 2013

Alberi Sacri dell'India: il Bodhi Tree, Albero dell'Illuminazione del Buddha


Albero e Tempio della Mahabodhi visti da nord. Bodhgaya, India
Una notte dopo l’altra Gautama meditò ai piedi dell’albero di Peepal, facendo splendere la luce della consapevolezza sul suo corpo. Da tempo i cinque amici l’avevano abbandonato, ed erano rimasti a praticare con lui la foresta, il fiume, gli uccelli e le miriadi di insetti che abitano la terra e gli alberi. Suo fratello nella pratica era il grande albero di Peepal. Siddharta alzò gli occhi. La stella del mattino si levava all’orizzonte, vivida come un diamante. Quante volte l’aveva guardata sedendo sotto l’albero di Peepal, ma ora era come se la vedesse per la prima volta. Aveva lo stesso bagliore, lo stesso sorriso trionfante dell’Illuminazione. Siddharta guardò la stella del mattino e, colmo di compassione, esclamò: “Tutti gli esseri hanno in sé i semi dell’Illuminazione, eppure affoghiamo nell’oceano di nascita e morte per migliaia e migliaia di esistenze!”.


Siddharta Gautama, colui che sarebbe diventato il Buddha, “il Risvegliato”, nacque intorno al 563 a.C. a Lumbini, luogo dell’attuale Regno del Nepal. Siddharta era un principe, figlio di Suddodhana, re del clan dei Sakya, e di Mayadevi. La regina morì otto giorni dopo il parto, ed il piccolo fu allevato dalla zia materna, Gotami, trascorrendo la prima parte della vita a Kapilavastu (anch’essa, probabilmente, nell’attuale Nepal), capitale del regno. Già prima della nascita, i santi della città avevano predetto che quel bambino sarebbe diventato od un condottiero invincibile, oppure un grande maestro, il quale, scoperta la via della Liberazione, la avrebbe insegnata a tutti gli uomini. Siddharta pare fosse dotato di una intelligenza eccezionale: all’età di 14 anni conosceva i Veda, ed eccelleva in tutti i campi dell’arte, delle lettere, della filosofia e della matematica. Secondo la tradizione, da tre incontri, con un vecchio, con un malato, e con un corteo funebre, Siddharta prende coscienza della sofferenza inerente alla condizione umana. Ritiene che i Veda e la religione che propongono, basata su inni, preghiere e sacrifici, e peraltro incrostata dall’avidità della casta sacerdotale, che si pone come intermediaria necessaria tra l’uomo e Dio, non risolva affatto il problema della sofferenza umana. Mosso da una splendida Compassione nei confronti di tutti gli esseri viventi, e stimolato da un quarto incontro, con un asceta, il giovane principe vede crescere dentro di sé la necessità di dedicare la propria vita alla ricerca di una Via, di un modo per eliminare la sofferenza. Suo padre, il quale ovviamente voleva che un figlio così dotato gli succedesse alla guida del regno, fece di tutto per distoglierlo dalle sue inclinazioni spirituali. Sebbene a malincuore, Siddharta acconsente a sposarsi con una cugina, Yasodhara, ed avrà anche un figlio, Rahula. Ma all’età di ventinove anni prende la sua decisione: nel cuore della notte abbandona la moglie ed il figlio addormentati e varca i confini del regno. Dopo avere scambiato i suoi regali vestiti con quelli poveri e dimessi di un cacciatore, e rasati i lunghi capelli, si diresse  verso est. Per più di cinque anni visse da asceta, alternando una semplice vita nella foresta dedita alla meditazione, allo studio presso alcuni dei maestri spirituali più famosi dell’ epoca, di cui realizzò completamente gli insegnamenti. Nessuno di essi conduceva però ad eliminare definitivamente la sofferenza, e capì che doveva cercare da solo la chiave del problema. Credendo allora che la liberazione della mente passasse attraverso l’annullamento del corpo e dei suoi desideri, si ritirò in una grotta del monte Dangsiri, ad una mezza giornata di cammino dal villaggio di Uruvilva, iniziando un periodo di rigido ascetismo, che durerà per sei mesi. Il suo corpo si ridusse a pelle ed ossa, devastato dall’ascesi estrema. Comprese che neppure la mortificazione del corpo portava da nessuna parte, e decise di scendere al villaggio, di ricominciare a nutrire e ad accudire il proprio corpo, e di proseguire con altri modi la sua ricerca. Un giorno, infine, sedette sotto un albero di Peepal nella foresta, come era solito fare da alcuni mesi, sopra un cuscino di erba Kusha, determinato a non alzarsi fino a quando non avesse raggiunto il proprio scopo. E fu proprio sotto quel Peepal che, dopo sette giorni di meditazione perfetta ed ininterrotta, in una notte di luna piena del mese di Vaisakha (aprile – maggio), all’età di circa 35 anni, Siddharta Gautama raggiunse l’Illuminazione, e divenne il Buddha. Spese altri 49 giorni in prossimità dell’albero, in meditazione e beata contemplazione, e poi se ne partì, per insegnare a chiunque fosse disposto ad ascoltarlo la strada che conduce alla liberazione dalla sofferenza.

Buddha Sakyamuni.  Mahabodhi Temple. Bodhgaya, India
Nalaka prese la parola: “Venerabile Buddha, siamo davvero felici che tu ci insegni la Via della Consapevolezza. Sujata mi ha raccontato che hai meditato sotto il Peepal per sei mesi e che proprio questa notte hai ottenuto il grande risveglio. Venerabile Buddha, quest’albero di Peepal è il più bello della foresta. Possiamo chiamarlo l’’Albero del Risveglio’, l’’Albero della Bodhi’? La parola bodhi ha la stessa radice di buddha, e significa risveglio”.

(Il corsivo anteriore, così come il paragrafo che apre il Post, sono tratti dallo stupendo libro “Vita di Siddharta il Buddha” di Thich Nhat Hanh, edito da Ubaldini, a cui rimando chi volesse approfondire la vita e gli insegnamenti del Buddha).